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Cosa fare dopo la letterona da Bruxelles

 

Di Francesco Daveri

 

     Bruxelles ha avviato verso l’Italia una procedura di infrazione per deficit eccessivo a causa dello sforamento del debito. Le sanzioni si possono ancora evitare senza rinunciare a ridurre gradualmente le imposte. Purché il governo si metta davvero a trattare.

 

La letterona da Bruxelles, spiegata

 

     Stavolta da Bruxelles al governo italiano è arrivata una letterona di 23 pagine, fitte e piene di dettagli tecnici. Vediamone qualcuno.

      La letterona è un rapporto preparato in attuazione dell’articolo 126 del trattato Ue che regola la procedura di infrazione per deficit eccessivo. Il deficit

di un paese Ue può essere “eccessivo” in due modi: se il rapporto deficit-Pil supera il 3 per cento oppure se il rapporto debito-Pil è oltre il 60 per

cento e non mostra sufficiente progresso nella sua discesa (riduzione di un ventesimo l’anno del divario rispetto all’obiettivo del 60 per cento), sia

con riferimento ai dati del triennio precedente che con riferimento alle previsioni per il triennio successivo. Nel valutare il raggiungimento dell’obiettivo

di debito si tiene anche in considerazione la presenza di circostanze cicliche sfortunate (se l’economia va male, deficit e debito sono più elevati in

rapporto al prodotto interno lordo). Un paese può essere sanzionato per deficit eccessivo anche se il suo disavanzo pubblico è sotto la soglia del 3 per

cento.

    Il rapporto deficit-Pil al 3 per cento e quello debito-Pil al 60 per cento – pur non essendo numeri scritti nei libri di economia – sono una regola del

pollice usata dal trattato di Maastricht in poi per valutare se le politiche di bilancio adottate nei vari paesi sono sufficientemente simili tra i paesi

dell’Unione e tali da non pregiudicare il valore e la sostenibilità dell’euro. Tutte le unioni monetarie hanno regole come quelle in essere in Europa.

Gli stati Usa, ad esempio, devono sottostare a Balanced Budget Rules che vietano loro di incorrere in disavanzi se non in casi eccezionali (per finanziare

i quali esistono “rainy day funds”). In base alle regole vigenti, la Commissione europea deve monitorare se i paesi rispettano la disciplina di bilancio

descritta. In caso di deviazioni dai criteri indicati, la Commissione è tenuta a scrivere un rapporto che ne documenti le motivazioni, tenendo in considerazione

vari fattori eccezionali che possano giustificarle. Così ha fatto la Commissione nelle sue 23 pagine.

 

“Tutta colpa del Pd” (secondo Di Maio)

 

     Secondo il vicepremier Luigi Di Maio la letterona di critiche è tutta colpa del Partito democratico, cioè dei governi a guida Pd. In effetti già il 23 maggio

2018, cioè una settimana prima del giuramento del governo Conte, la Commissione scrisse un rapporto in cui si leggeva che l’Italia non aveva fatto “sufficient

progress towards compliance with the debt criterion in 2017” (“sufficienti progressi verso il rispetto del criterio del debito nel 2017”). Il debito del

2017 era “del Pd”, non di Lega e Movimento 5 stelle. Il rapporto di maggio 2018 ravvisava anche un rischio di “deviazione significativa dal sentiero di

aggiustamento verso il conseguimento degli obiettivi di bilancio di medio termine” raccomandati dalla Commissione Ue per il 2018 alla luce delle sue previsioni

di primavera. Per questo, per il vicepresidente del Consiglio del M5s, la letterona è “colpa del Pd”.

   Il rapporto di maggio 2018 indicava anche, però, che la Commissione avrebbe riesaminato la “compliance” con la disciplina di bilancio “una volta conosciuti

i dati 2018 nella primavera 2019”. L’avvertimento, che non fu preso sul serio, era dunque accoppiato a un rinvio all’anno nuovo e – in definitiva – a una

concessione di tempo. Il benigno rinvio offerto dalla Commissione non è stato però usato bene. Già prima dell’anno nuovo, infatti, nel novembre 2018 la

Commissione si trovava a identificare nel progetto di legge di bilancio per il 2019 in discussione in Parlamento un caso di “mancato rispetto particolarmente

serio” delle raccomandazioni contenute nelle conclusioni del Consiglio europeo (quello dei primi ministri dei vari stati) del 13 luglio del 2018. E se

la deviazione sul 2017 era colpa del Pd, la preoccupazione per il non rispetto delle raccomandazioni degli altri partner europei era tutta farina del sacco

del governo del cambiamento. Va però detto che, a queste preoccupazioni, il governo gialloverde ha posto (temporaneo) rimedio approvando una versione riveduta

e corretta della legge di bilancio proposta inizialmente. Versione che l’Europa e i mercati hanno validato intorno alla fine dell’anno scorso. Dopo le

spacconate primaverili ed estive del dipartimento economia della Lega sull’uscita dall’euro e dopo la proposta di legge di bilancio autunnale, il bilancio

effettivamente approvato faceva prevalere il dialogo costruttivo con l’Europa. Come auspicato dal ministro dell’Economia Giovanni Tria.

    Poi è arrivata la primavera 2019, con i dati definitivi per il 2018 e previsioni aggiornate per il 2019 e il 2020. Un deficit in calo al 2,1 per cento (giù

dal 2,4 del 2017) mentre il debito pubblico 2018 saliva al 132,2 per cento, in aumento rispetto al 131,4 del 2017, decisamente al di sopra e anche in via

di accresciuta divergenza rispetto all’obiettivo del 60 per cento indicato nell’articolo 126 del trattato europeo. Per il 2019, il debito era dato in crescita

ulteriore al 132,6 per cento del Pil per poi scendere al 131,3 nel 2020. Almeno per il governo italiano. Invece la Commissione nelle sue stime “a politiche

invariate” non contabilizza più (da 4 anni) le cosiddette clausole di salvaguardia, gli aumenti automatici di imposte indirette introdotte per la prima

volta da Giulio Tremonti nel 2011. Tali aumenti sono stati così poco automatici (e quasi sempre disattivati senza mai trovare forme alternative di copertura)

che ormai la Commissione non li prende più sul serio e li esclude dalle sue stime. Ma senza queste clausole, gli aumenti di spesa e i tagli di tasse sono

privi di coperture e il debito schizza su al 133,7 per cento del Pil già nel 2019 e al 135,2 per cento nel 2020.

 

Riassunto

 

     Sulla base dei dati disponibili e delle previsioni della Ue, l’Italia non ha rispettato l’obiettivo di riduzione del debito nel 2018 per circa 7,5 punti

percentuali. In prima approssimazione ciò rappresenta evidenza dell’esistenza di un “deficit eccessivo”. Gli stessi dati e le stesse previsioni portano

a pensare che l’Italia probabilmente non rispetterà l’obiettivo di debito né nel 2019 né nel 2020, con un divario rispetto all’obiettivo crescente nel

tempo a 9 punti percentuali (il debito nel 2021 dovrebbe essere a 126 e invece arriverà a 135 punti di Pil).

    Nella seconda parte della letterona la Commissione considera le circostanze attenuanti che potrebbero motivare gli sforamenti ma – a differenza che in passato

– non ne trova di sufficienti a giustificare le deviazioni osservate. Per dirne una, gli investimenti pubblici, spesso citati come ragione per gli sforamenti,

sono oggi inferiori a dieci anni fa. Non è per la realizzazione delle opere infrastrutturali – di cui molti dicono che il nostro paese avrebbe bisogno

– che l’Italia non ha rispettato l’obiettivo del debito. E sull’attuazione delle riforme, il rapporto ricorda che il Programma indicato dal governo affronta

solo parzialmente i problemi strutturali dell’economia. Soprattutto, mancano i dettagli di ciò che si vuole fare. In più, mentre il Consiglio dei ministri

Ue ci raccomandava di ridurre la quota della spesa pensionistica sul totale della spesa sociale, è invece arrivata “quota 100”, cioè nuove risorse pubbliche

sono state destinate a pensionamenti anticipati in deviazione dalle riforme passate.

 

Cosa fare dopo la letterona

 

     Il rapporto della Commissione rappresenta l’avvio di una procedura di infrazione per deficit eccessivo basata sul criterio del debito a carico dell’Italia.

È solo l’avvio della procedura perché è un primo atto formale alla luce dei dati in possesso della Commissione. Se da qui al 9 luglio (quando è fissato

il prossimo Ecofin, la riunione dei ministri dell’economia dei paesi dell’Unione) il governo italiano formulasse intendimenti difformi rispetto agli elementi

in possesso della Commissione, la procedura potrebbe essere interrotta, con votazione a maggioranza qualificata. La presentazione di una manovra correttiva

di qualche miliardo per il 2019 potrebbe essere considerata un elemento utile allo scopo.

      In ogni caso, come riportato nella letterona, la Commissione è consapevole del fatto che serve “una modulazione attenta dell’aggiustamento di bilancio per

evitare che uno sforzo fiscale troppo consistente finisca per essere controproducente in un contesto in cui il Pil a prezzi correnti (cioè inclusivo dell’inflazione)

cresce meno del 2 per cento”. Insomma, i margini di manovra per una trattativa esistono, se il governo italiano vuole sedersi al tavolo. Lasciando perdere

le frasi a effetto da campagna elettorale (“gli italiani e i miei figli vengono prima di Bruxelles”, Matteo Salvini) e invece spiegando – all’Europa, agli

italiani e ai mercati – che si vuole fare una riforma fiscale per rilanciare la crescita. Ma spiegando anche che ci vorranno tre anni per attuare questo

piano perché la riduzione delle voci della spesa pubblica che consentono di generare una copertura di bilancio alle riduzioni di imposta – per quanto annunciate

subito – potranno essere attuate solo con gradualità.

 

(da www.lavoce.info)

 

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