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Nuovo accordo e vecchi problemi per la scuola italiana

di Andrea Gavosto

L’accordo politico tra sindacati e ministero tocca temi importanti per la scuola: lavoro, retribuzioni e autonomia regionale. Ma lo fa in modo molto generico e senza considerare la qualità dell’insegnamento. E per i precari si prepara una nuova sanatoria.

Intesa pre-elettorale

Il 24 aprile governo e sindacati hanno siglato un accordo sulla scuola. L’obiettivo del governo era scongiurare uno sciopero poco prima delle elezioni europee, che infatti è stato sospeso.
Da tempo si fanno accordi a ridosso di scadenze elettorali, dove lo scambio fra le parti trascura la qualità della scuola e l’interesse degli studenti: il 30 novembre 2016, poco prima del referendum, il governo Renzi riassegnò centralità alla concertazione sindacale nel pubblico impiego; il 9 febbraio 2018, un mese prima delle elezioni politiche, il governo Gentiloni firmò un contratto di lavoro della scuola, che fra le altre cose alleggeriva l’obbligo di formazione dei docenti. Non sarebbe male imporre una moratoria agli accordi nel pubblico impiego nei mesi precedenti gli appuntamenti elettorali.

Verso una nuova sanatoria

Il nuovo accordo non fa eccezione. Tocca temi importanti per la scuola – lavoro, retribuzioni e autonomia regionale – ma in modo assai generico, poco più di promesse.
La prima è la promessa del governo di agevolare l’immissione in ruolo degli insegnanti che hanno lavorato come supplenti per almeno 36 mesi: decine di migliaia, ma è difficile quantificarli, senza precisazioni sui criteri definitori del loro status. Dopo Matteo Renzi, che con la Buona scuola fallì lo stesso obiettivo, oggi anche l’esecutivo gialloverde scende in campo contro l’eccesso di “supplentite”, piaga storica della scuola italiana, che quest’anno segna un nuovo record: oltre 160 mila incarichi annuali.
La soluzione, che l’intesa per ora non indica in dettaglio, è una nuova sanatoria. Quanti hanno 36 mesi d’insegnamento, ma non l’abilitazione, godranno di percorsi fortemente agevolati – grazie ai minori titoli richiesti e un’ampia riserva di posti loro garantiti – nei due concorsi che il ministero dell’Istruzione, università e ricerca farà per il prossimo triennio, con 66 mila posti a disposizione. Ci saranno, inoltre, ulteriori percorsi “abilitanti e riservati” in via transitoria al di fuori dei concorsi.
Quale che siano le procedure privilegiate, che saranno definite in nuovi incontri fra le parti, fin d’ora si può dubitare che garantiscano un’equa selezione di persone davvero qualificate: avere un’esperienza didattica, neanche troppo lunga, non è certo un surrogato alla verifica della qualità della preparazione didattica e disciplinare, che sarà invece richiesta agli altri candidati. Né ci si può attendere frutti a breve. Siamo a maggio, i concorsi – attesi per l’estate – e le procedure abilitanti richiedono molti mesi: se va bene porteranno persone in cattedra per il 2020-2021.
Quindi, nell’anno scolastico 2019-2020, alla luce delle uscite per normale turnover e a quelle per “quota 100” (non moltissime), si arriverà forse a 200 mila supplenti. Una cifra inaudita di fronte ai circa 700 mila insegnanti di ruolo, che testimonia il fallimento delle politiche di assunzione finora seguite. L’intesa, infatti, non affronta il vero problema: in Italia mancano – soprattutto in alcune regioni e in alcune materie, non solo in quelle scientifiche – docenti qualificati da mandare in cattedra perché da decenni manca un sistema di formazione iniziale e di reclutamento serio e stabile. In assenza di questo, i supplenti sono destinati a crescere; poi ogni 2/3 anni si risolve il problema con una sanatoria. Tutto già visto, purtroppo.

Retribuzioni e carriere

Gli aumenti retributivi sono un altro punto dell’accordo: secondo il ministro Bussetti, in tre anni i salari dovrebbero crescere in media di almeno 100 euro al mese, un incremento rispetto a oggi fra il 2,4 e il 3,8 per cento, a seconda della fase di carriera.
La principale giustificazione per l’incremento è il basso livello retributivo dei docenti italiani. Come dicono i dati Ocse, la retribuzione annua di partenza di un docente italiano è circa 31 mila dollari a parità di potere d’acquisto: meno della media europea, molto meno di quella tedesca. In verità, se si considera il più breve orario di lavoro degli insegnanti italiani, il divario non appare enorme rispetto a molti altri paesi.
Quel che, invece, davvero manca è una progressione salariale: una volta in ruolo, gli insegnanti hanno solo sei scalini, tutti per anzianità. Ma senza una prospettiva di carriera è difficile distinguere e premiare chi ha capacità e si impegna da chi è attratto solo dal posto di lavoro sicuro. Così non si attirano nella scuola i migliori laureati. Peraltro, gli aumenti sono esplicitamente subordinati ai vincoli di bilancio pubblico: se una parte (40 euro) è già coperta dalla legge di bilancio 2019, non sarà banale – è un eufemismo – trovare il resto a dicembre.

Vi è, infine, un impegno del governo sull’unità nazionale del sistema di istruzione, dopo le richieste di autonomia differenziata da parte delle principali regioni del Nord che includono il passaggio delle competenze sulla scuola. In particolare, nell’accordo si ribadisce l’unitarietà degli ordinamenti, dei curricoli e della governance del sistema, competenze che già la Costituzione affida allo stato. L’unica novità di interesse è l’affermazione che i criteri di reclutamento dei docenti non potranno essere diversi da regione a regione, limitando così i margini d’azione degli enti territoriali. Un punto rilevante, ma resta comunque difficile pensare che l’esito della partita sull’autonomia regionale dipenda da questo accordo preelettorale e non invece dal risultato delle elezioni europee.


Figura 1 – Retribuzioni docenti di ruolo, scuola secondaria II grado (in dollari a parità di potere d’acquisto)"
Fonte: Ocse, Education at a Glance, 2018


Figura 2 – Ore contrattuali annue, scuola secondaria II grado
Fonte: Ocse, Education at a Glance, 2017

(da www.lavoce.info)

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