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Francis Fukuyama: “L’ascesa cinese ha cambiato il destino dell’Occidente”

di Francesco Cancellato

Era l’estate del 1989 e il Muro di Berlino era ancora lì, quando Francis Fukuyama, allora solo un giovane e brillante politologo americano, mise nero su bianco quattro parole che, da allora in poi, diventarono la sua maledizione: la fine della Storia. Il comunismo stava collassando e Fukuyama, precorrendo i tempi di qualche mese, vide l’umanità incamminarsi lungo un unico e inevitabile destino, da cui non si sarebbe più affrancato e oltre al quale non sarebbe più potuto andare: quello della democrazia liberale: «Marx era convinto che la fine della storia, della modernizzazione delle società verso il suo punto più evoluto, sarebbe stato il comunismo. Io, vedendo il comunismo morire davanti ai miei occhi, avevo capito che l’esito finale sarebbe stata la liberal democrazia, e che eravamo arrivati. Lo penso tuttora, peraltro».
Oggi, trent’anni dopo, Francis Fukuyama sorride ripensando a quelle parole. È il 12 marzo ed è a Milano, ospite della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, promotrice di un incontro dal titolo (ovviamente) “E se la storia non fosse finita” nell’ambito del ciclo di talk What is Left / What is Right, in cui personalità rilevanti della politica e della cultura europea internazionale riflettono su cittadinanza, diritti civili, inclusione sociale e integrazione europea, in vista delle elezioni europee 2019. Le elezioni della temuta svolta populista dell’Unione Europea, della grande svolta contro l’ordine popolare e socialdemocratico, a trent’anni esatti dall’evento che sembrò sancirne la vittoria: «Il 9 novembre del 1989 ha cambiato la politica globale. E sì, è andata diversamente da come ce la immaginavamo. Ad esempio, ci sono stati paesi autoritari come la Russia e la Cina che sono molto più forti e sicuri di sé. Più in generale c’è stata una reazione diffusa al nuovo ordine liberale globale che la caduta del muro ha generato».
Come mai questa reazione, Fukuyama?
Perché la Caduta del Muro ha prodotto parecchia ricchezza, ma altrettante diseguaglianze. Le disuguaglianze hanno prodotto agitazioni sociali e queste ultime sono state l’alveo per la nascita dei movimenti cosiddetti populisti. Nient’altro che figli della globalizzazione. O meglio, degli effetti culturali che la globalizzazione ha portato con se.

Lei parla di globalizzazione, ma qual è secondo lei l’evento che, in questi ultimi trent’anni, ha più di ogni altro ha concorso a generare questa reazione diffusa? L’11 settembre 2001? La crisi economica del 2008?
Nessuno dei due. A differenza di quanto pensavo allora ritengo che l’emergere di un nuovo radicalismo islamico, che ha avuto il là con gli attentati dell’undici settembre 2001, non impatterà granché sulla nostra civiltà. Azzardo: ce lo ricorderemo come una grande distrazione, mentre accadeva altro.

Come mai?
Perché il terrorismo è l’arma dei deboli, degli sconfitti. Non penso ci sarà alcun regime islamico in grado di sovvertire l’ordine occidentale. Peraltro, la sovra reazione degli Stati Uniti, prima in Afhganistan e in Iraq, ha lanciato proprio questo messaggio. Meglio non provarci nemmeno.

Nemmeno la crisi del 2008, quindi?
La crisi finanziaria è stata importante perché ha gettato enorme discredito sull’ideologia della globalizzazione. Tuttavia penso che l’evento più importante degli ultimi trent’anni sia stato l’ascesa della Cina, come attore economico e politico di primo livello.

Come mai?
Perché ha decretato il successo di un modo di produrre alternativo al nostro, di un’organizzazione economica, politica e sociale alternativa alla nostra.

Abbastanza alternativa e abbastanza di successo da costituire una minaccia?
Non penso ci sia mezzo occidentale disposto a lasciare il proprio paese per vivere in Cina o in Russia. Al contrario, credo che russi e cinesi siano molto attratti dalle liberaldemocrazie.

(da www.linchiesta.it - 16 marzo 2019)

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