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Il Giorno del Ricordo
per non dimenticare la tragedia delle foibe e dell'esodo istriano-dalmata

di Paolo Razzuoli

Il Giorno del ricordo è una solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno. Istituita con la legge 30 marzo 2004, n. 92, vuole conservare e rinnovare «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato secondo dopoguerra (1943-1945), e della più complessa vicenda del confine orientale».
La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l'Istria, il Quarnaro e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell'Italia.

Oltre trecentomila persone abbandonarono le loro terre, andando incontro ad un destino deltutto incerto.
In quegli anni la sinistra comunista dominava nel sindacato, e condizionava in modo decisivo la politica italiana. Quegli esuli, che abbandonavano una terra su cui si stava edificando una società comunista, vennero visti come reprobi che fuggivano proprio dal modello sociale e politico a cui la sinistra aspirava. Insomma, vennero sbrigativamente considerati fascisti, che fuggivano per non voler fare i conti con il loro passato.
Vi fu quindi una ostilità di natura politica, che si manifestò anche in episodi drammatici che mi sono stati raccontati, quali ad esempio uno sciopero dei ferrovieri per non far transitare un treno di esuli dalla stazione di Bologna. Ma vi fu anche un altro tipo di diffidenza: una diffidenza sociale. Quella derivante dal fatto che, in una situazione economica molto grave in cui ancora sussisteva l'emergenza della fame, questi esuli vennero percepiti come concorrenti per quel poco di lavoro che c'era. Una lotta fra poveri insomma, che si stemperò con la successiva ripresa economica.
Va detto comunque che molti furono gli episodi di solidarietà, che aiutarono non poco gli esuli a fronteggiare prima le emergenze, poi l'inserimento nei nuovi contesti. Solidarietà che vi fu anche da noi, a Lucca, dove vennero sistemati molti esuli, in due centri di raccolta.
Anche lo Stato fu sensibile, con l'emanazione di norme che favorirono il reinserimento occupazionale dei profughi.

Per molti decenni, sulle vicende del confine nord-orientale nell'ultima fase della seconda guerra e anni successivi, è stato calato un colpevole sipario di silenzio.
Silenzio che è stato infranto solo attorno agli anni '90, quindi in uno scenario politico complessivo profondamente cambiato. Il muro di Berlino era infatti caduto, il Maresciallo tito era morto ormai da un decennio, e la Jugoslavia stava per sfaldarsi, con guerre intestine drammatiche che l'avrebbero lacerata per molti anni. Guerre le cui efferatezze hanno riportato le lancette della storia indietro agli anni '40, i cui fatti, almeno in parte, hanno costituito l'ancoraggio di quei drammatici eventi.

L'istituzione del Giorno del Ricordo è una tappa fondamentale di questo percorso di verità storica: una ricorrenza per non dimenticare una delle vicende più tragiche in cui centinaia di migliaia di italiani hanno pagato un prezzo altissimo.
Drammatiche sono le testimonianze dell'esodo: Fucinaidee ne ha pubblicate molte, ed altre pubblica in occasione del Giorno del Ricordo 2019.

"Ogni volta che chiudo gli occhi, vado a dormire a casa mia". Anita Derin fissa le fotografie della sua infanzia e, con la voce rotta dall'emozione, racconta il suo esodo.
Aveva 12 anni quando è stata costretta a lasciare la sua città, Capodistria, per sfuggire alla violenza dei partigiani del maresciallo Tito. "Sono arrivati gli slavi, hanno incominciato a uccidere", spiega Anita. "Lì era diventato pericoloso. Non abbiamo potuto fare altro che scappare".
"I militari hanno occupato la mia casa, mangiato il mio cavallo. Diverse volte sono stata imprigionata: o perché avevo un bel vestito, o perché andavo in giro a fare fotografie con la mia Vogtlander". Anita oggi ha 83 anni, abita a Trieste e nel cuore porta i ricordi di tutta la sua infanzia (

Ma Anita è solo una piccola goccia nel mare. Alla fine della Seconda guerra mondiale oltre 300mila italiani abitanti dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia scappano dalle loro terre. Decine di migliaia vi vengono uccisi nelle foibe o deportati nei campi di concentramento titini. "Tito faceva i suoi interessi. Voleva farci perdere l'identità. A noi veniva cancellata l'identità italiana", racconta Giorgio Gorlato, esule istriano. "Sono scappato con mia madre e mia sorella in Friuli. Mio padre invece è rimasto a Dignano. Una notte i partigiani hanno fatto irruzione in casa nostra. Da quel momento non si è saputo più nulla di lui".

L'accoglienza

Anita come Giorgio. Bambini costretti a scappare e a iniziare una nuova vita lontano dalle loro case e spesso anche dalle loro famiglie. "Quando siamo arrivati in Italia, non siamo stati accolti bene - racconta Anita -. Sia a scuola che sul lavoro. Una volta ho sentito una mamma dire al figlio che stava facendo i capricci: 'Se non stai zitto, chiamo gli esuli'. Neanche fossimo bestie".

"Non è stato facile - afferma Giorgio -. Siamo stati malvisti: noi eravamo o fascisti o comunisti. C'è stata poca empatia. Venuti in Italia siamo stati per molti anni ignorati".

Il Magazzino 18

Per accedere al Magazzino 18 percorriamo alcune centinaia di metri in auto. Attorno ci sono soltanto vecchi edifici. Di quelli consumati e logorati dal tempo. Di quelli che ancora hanno impressi il rumore dei morti e lo strazio dei vivi. E qui, nel vecchio porto di Trieste, al Magazzino 18, c’è quello che resta degli esuli italiani. Appena scendiamo dall’auto, quel numero, 18, sbatte dritto davanti a noi. Sta impresso su quella facciata corrosa dall’umidità e dalla salsedine, come i ricordi dei nostri connazionali costretti a fuggire dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, dopo che il trattato di pace, il 10 febbraio 1947, assegnò queste terre alla Jugoslavia.
Qui i nostri connazionali hanno portato le loro cose, quelle che rimanevano, cercando un appiglio dal quale ripartire. Le loro case, infatti, furono sventrate, razziate e derubate dai titini. Dentro fa freddo, un freddo umido e le masserizie sono ancora poste così, come gli esuli le avevano messe. Si vedono piatti, stoviglie, tazzine, vecchie e logore tovaglie, mobili, letti, sedie su sedie, vestiti ingialliti, scarpe, intere scatole di bottoni, vecchi giornali, libri e anche occhiali da vista.
Ora il Magazzino 18, divenuto famoso grazie allo spettacolo di Simone Cristicchi, è diventato una sorta di "museo" che apre proprio la settimana del 10 febbraio.

Lucca, 8 febbraio 2019

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