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Laureati italiani, ecco perché non trovate lavoro: colpa della scuola, delle imprese (e un po’ pure vostra)

di Michele Boldrin

Verità scomode

“Mi sono laureato in filosofia con 110, ho fatto ogni tipo di lavoretto ma son costretto a fare il cameriere. È ingiusto che la società non mi offra un lavoro adeguato, vuol dire che l’educazione e lo studio non vengono valutati”. Affermazioni di questo tipo sono il pane quotidiano di talk-show e di ogni dibattito o servizio sullo stato dell’occupazione giovanile. I giovani – una categoria che oramai sembra essersi estesa sino a includere buona parte dei trentenni – e il lavoro vivono da tempo una relazione molto difficile, in Italia. Le ragioni sono molteplici: proviamo a considerare quelle che l’affermazione parafrasata – udita un decennio fa in un talk-show – adombra, rivelando nostre serie insufficienze sia culturali che sistemiche.

Anzitutto il lato culturale, riflesso di un atteggiamento maggioritario pur con vaste eccezioni. Eccone i presupposti: (i) il mio titolo di studio certifica la mia professionalità; (ii) a tale professionalità corrispondono un’occupazione ed un reddito che avevo come obiettivo nell’intraprendere quel corso di studi; (iii) un sistema economico che funzionasse bene dovrebbe permettermi di trovare quell’occupazione e di ricevere quel reddito; (iv) se questo non accade è compito della “società” (ovvero: lo Stato) offrirmi tale lavoro e reddito. Tutti sbagliati, tutti da rifare. Tutti frutto d’una cultura inadatta al mondo del 2019 la quale, persino in Italia, non ha mai avuto corrispondenza nella realtà ma che si è venuta costruendo sulla base di retaggi antichi e comode ideologie alla moda.

I. Non vi è alcuna relazione definita tra titolo di studio, da un lato, e figura professionale, dall’altro. Questo sia perché non tutti i voti/titoli misurano le stesse conoscenze (il mito del “valore legale”) sia perché le conoscenze acquisite sono, al meglio, degli strumenti per costruire/acquisire una professionalità socialmente richiesta. Quest’ultima si dimostra solo sul campo, con i fatti.

Le imprese evolvono e le mansioni – dalla più remunerata alla più umile – con esse. Le imprese evolvono adattandosi reciprocamente in un equilibrio dinamico in cui prezzi, profitti e perdite segnalano quel che funziona e quel che no. Si chiama concorrenza ed è il motore della crescita economica. Lo stesso fanno le persone: cercano dove si trovi il miglior match tra quel che sanno fare e quel che altri son disposti a compensare perché venga fatto. Oppure creano un’impresa per far da soli quel che ritengono di saper fare. Il reddito che ne consegue è semplicemente una misura di quanto gli altri valutino quello che tu sai fare.

III. Un sistema economico che funziona bene è un sistema che cresce aumentando la propria produttività complessiva. In questo processo alcune mansioni scompaiono e se ne creano altre. Dal fatto che un tempo vi fosse alta domanda per avvocati e tornitori non implica che debba essere così per sempre. Se una persona ritiene che la sua professione sia quella giusta non ha che da produrre ciò che sa fare e metterlo in vendita. Se agli altri quel prodotto o servizio interessa, lo acquisteranno. Esigere che venga acquistato a un prezzo prefissato equivale a una richiesta di sussidio per “far ciò che mi pare”. Era il metodo del marchese del Grillo, sembra non funzioni più.

IV. Il compito dello Stato è quello di creare l’ambito legale e di fornire i servizi pubblici necessari al realizzarsi del processo di “ricerca ed incontro” appena descritto. Lo stato – meno ancora la “società” – non ha alcuna capacità di dettare quali mansioni siano necessarie e quali no ed in quali proporzioni. Tutte le volte che si è cercato di “programmare e dirigere” il mercato del lavoro attraverso una burocrazia statale si sono prodotti disastri, alcuni immani.

L’ultimo punto conduce all’insufficienza sistemica. Dal lato dell’offerta: un sistema di istruzione superiore che – fatte salve rare eccezioni – insegna, in genere, quel (poco e sempre uguale) che i professori appresero e non quello che il sistema economico necessiterebbe. Ecco quindi le decine di migliaia di laureati in “scienze” della comunicazione, giuridiche, politiche, commerciali, sociologiche ed umane d’ogni forma e colore. Tutti regolarmente sottoccupati ed insodisfatti. O le masse di diplomati a questo o quell’istituto superiore – spesso “sperimentale” – che pensano di saper tutto quel che sul mondo c’è da sapere e di doverlo dimostrare nel raggio di tre chilometri da dove son nati. Dove, neanche a dirlo, nessuno sembra apprezzarlo. Giudizi brutali? Brutali sono i fatti: l’istruzione superiore in Italia è tutta da rifare, dalla prima media in avanti.

Dal lato della domanda: l’arretratezza dell’impresa italiana la quale – per le mille note ragioni fiscali, regolatorie, sindacali e di cultura imprenditoriale – continua a sopravvivere con prodotti a basso contenuto tecnologico, basso valore aggiunto e dimensioni subottimali. Da un tessuto imprenditoriale del genere può venire solo una domanda di lavoro che si concentra sulla manualità, la flessibilità, il basso costo. Quanto descritto, ovviamente, non vale per l’intero mercato del lavoro italiano, le eccezioni son molte ed anche sostanziali. Un buon esempio recente – al secondo anno – è Ingegneria del Veicolo a Modena che prova come offerta e domanda possano cercare d’adattarsi l’una all’altra. Eccezioni come questa a parte quanto sopra descritto vale ragionevolmente bene per il mercato del lavoro che inizia al sud di Marche e Toscana e di cui svariate aree del Settentrione non sono esenti. Descrive, soprattutto, la mentalità oggi dominante in Italia, la quale informa di sé il sistema dei media ed attraverso di esso si perpetua ed allarga come un tumore oramai metastizzato. Al quale non bisogna cedere ma contrapporre, invece, chemioterapia culturale: brutale ma salutare. Facciamola.

(da www.linchiesta.it)

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