Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin
Per governare i flussi migratori dai paesi africani è necessario comprendere le cause che li determinano. A partire da una popolazione in crescita e da processi di sviluppo lunghi e complessi. E senza dimenticare le responsabilità dei paesi occidentali.
Il dibattito sul franco Cfa e sugli interessi della Francia in Africa, già affrontato da lavoce.info con un fact-checking e con
ha avuto il merito di portare l’attenzione sulle cause delle migrazioni. Per evitare di ridurre la discussione a facili slogan (come, per esempio, “l’immigrazione è colpa della Francia”), vale la pena approfondire la questione. Naturalmente, le cause delle migrazioni sono molte e molto complesse, ma possiamo provare a individuare tre elementi chiave: demografia, economia e processi di sviluppo.
La popolazione africana residente nel continente ha superato il miliardo già
nel 2010, e nel 2015 si attesta vicino a 1,2 miliardi, più del doppio rispetto
a quella dell’UE. Nel 2050, secondo le previsioni Onu, sarà più che
raddoppiata, superando i 2,5 miliardi (e sarà circa cinque volte la popolazione
UE). La tendenza diventa ancora più significativa se confrontata con l’inverno
demografico europeo: l’Unione ha circa 500 milioni di cittadini, destinati a
una sostanziale stagnazione.
Nonostante la maggior parte dei flussi migratori dai paesi africani riguardi
movimenti “intra-africani” (i più grandi attrattori sono Sudafrica, Congo e
Costa d’Avorio, ma anche paesi vicini alle zone di crisi come Sud Sudan,
Gibuti, Mauritania), è evidente che la crescita della popolazione avrà
ripercussioni sui fenomeni migratori. La Nigeria, ad esempio, supererà i 400
milioni di abitanti nel 2050. Altri cinque paesi oltrepasseranno quota 100
milioni.
La polemica sul franco Cfa ha riportato alla ribalta il tema del
colonialismo (e neo-colonialismo), come causa principale del mancato sviluppo
africano e, indirettamente, delle migrazioni. In effetti, gli interessi delle
potenze europee in Africa hanno radici profonde, ma la questione è molto più
complessa di quanto il dibattito di questi giorni potrebbe far pensare.
Le prime fasi del colonialismo delle nazioni moderne risalgono al periodo dei
grandi navigatori del 1500 (principalmente spagnoli e portoghesi).
Successivamente, per tutto il 1800, le potenze europee fanno letteralmente a
gara per spartirsi le risorse africane, ridisegnando a tavolino i confini di
paesi che prima erano suddivisi in centinaia di regni (spesso rimescolando
gruppi etnici in guerra tra loro). In questa fase, senza dubbio, Regno Unito e
Francia giocano un ruolo predominante. Anche dopo la decolonizzazione,
completata solo negli anni Settanta del 1900, gli stati africani hanno subito i
forti interessi delle potenze occidentali, prima con la contrapposizione
Usa/Urss e poi attraverso l’iniziativa delle grandi multinazionali, che spesso
vantano fatturati superiori al Pil dei paesi in cui operano e possono negoziare
l’accesso alle materie prime con un rapporto di forza nettamente sbilanciato.
Dai primi anni Duemila, il principale attore in Africa è diventato la Cina,
con un approccio molto concreto: risorse naturali in cambio di infrastrutture
(strade, dighe, stadi, ferrovie, porti). Durante il terzo Forum on China-Africa
Cooperation del 2018 è stato annunciato un nuovo piano triennale da 60 miliardi
di dollari, in linea con quanto stanziato nel triennio precedente. Pechino ha
trovato in Africa un enorme mercato per le proprie aziende manifatturiere: il
valore del commercio bilaterale tra Cina e Africa è passato da poco più di 10
miliardi di dollari nel 2002 a 220 miliardi nel 2014.
Tutte queste dinamiche rappresentano indubbiamente un macigno sulle economie
africane, limitando lo sviluppo di quei paesi. Peraltro, anche le politiche
“interne” ai paesi occidentali hanno un impatto sull’economia africana: ad
esempio, metà del bilancio Ue è dedicato al sostegno all’agricoltura,
costituendo di fatto un freno alle esportazioni africane.
Il rapporto tra sviluppo e migrazioni
Secondo un’opinione molto diffusa, l’aumento degli investimenti e del
livello di benessere in Africa dovrebbe comportare automaticamente una
riduzione delle migrazioni. In realtà, molti studiosi hanno dimostrato come il meccanismo si
realizzi solo nel lungo periodo. Anzi, nell’immediato, lo sviluppo agisce
addirittura come stimolo alle emigrazioni: aumentando il reddito disponibile,
infatti, è più facile sostenere il costo di un investimento così grande come
l’emigrazione internazionale. E crescono pure il livello di istruzione,
l’accesso alle informazioni e persino le scelte di matrimonio e di fertilità,
tutti fattori di spinta delle migrazioni.
Va aggiunto che nei primi anni Duemila l’aumento del Pil di vari paesi africani
aveva portato molti economisti a parlare di “miracolo africano”, prevedendo una
strada simile a quella delle Tigri asiatiche. In realtà, quella crescita si è
rivelata molto fragile, troppo legata al prezzo delle materie prime e poi
frenata da fattori politici e strutturali. Ciò dovrebbe insegnare che i
processi di sviluppo sono molto lunghi e complessi.
“Aiutiamoli a casa loro” dovrebbe dunque essere un auspicio mosso dalla
solidarietà tra stati, non dal mero interesse di ridurre gli arrivi. Lo slogan
andrebbe poi “riempito” di dettagli che rispondono a quesiti elementari:
“quanto li vogliamo aiutare”? “Come”? “Attraverso che canali”?
Sul “quanto”, l’Italia e gli altri paesi occidentali sono ben lontani
dall’obiettivo stabilito nel 2000 per gli aiuti pubblici allo sviluppo (0,70
per cento del Pil; l’Italia è allo 0,20 per cento). Considerando che ogni
decimo di Pil vale circa 1,7 miliardi, c’è da chiedersi quale governo potrebbe
oggi proporre un aumento. Proprio in questi giorni, anzi, uno studio di Openpolis e Oxfam ha evidenziato il taglio ai fondi per la
cooperazione contenuto nella legge di bilancio 2019.
In più, andrebbe stabilito il “come”: gli aiuti sarebbero gestiti direttamente
dai governi locali (con il rischio di finanziare dittatori e guerriglieri),
dagli organismi internazionali multilaterali, o dalle tanto vituperate Ong?
Se non rispondiamo a questi interrogativi (innanzitutto, come comunità internazionale, ma anche come Italia), il dibattito rimarrà fermo a slogan superficiali e non porterà nessun beneficio reale, né in Africa né nel nostro paese.
(da www.lavoce.info)