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E' uscito «La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia»; l'ultimo saggio di Sabino Cassese

A cura di Paolo Razzuoli

E' uscito il 31 gennaio il saggio «La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia» (il Mulino) di Sabino Cassese. Nel saggio l'autore compie un’acuta analisi del biennio 2017-2018 e dei cambiamenti più recenti nel sistema politico italiano. Lo fa partendo da alcuni interrogativi fondamentali:
Quali sono state le ragioni della vittoria di due forze minoritarie come la Lega e il Movimento Cinque Stelle?
Forse le ataviche debolezze del nostro Paese?
Forse i molti errori dei partiti storici dell’era del bipolarismo?

Riprendendo i Dialoghi comparsi sul Foglio negli ultimi due anni, Cassese arricchisce la propria riflessione con dati strutturali e modi operandi della democrazia italiana, considerando i condizionamenti popolari, giuridici, tecnico-amministrativi, europei e globali.
Un viaggio che esplora in maniera nuova la politica, tenendo in ampia considerazione il problema del nuovo consenso e la rivoluzione rappresentata da internet come mezzo d'informazione e d'espressione.

Il biennio 2017-2018 è un tornante, indica l’inizio di una fase diversa della storia del sistema politico italiano?
Per rispondere a questa domanda, bisogna fare un passo indietro, ed esaminare quel che è accaduto nel quarto di secolo precedente.

E' corretto affermare che le elezioni politiche nazionali del 1994, come quelle del 2018, siano state «rivoluzioni in forme legali». Del sommovimento del 1994 hanno fatto le spese in particolare i due partiti che avevano più a lungo governato, la Democrazia Cristiana e ed il Partito socialista. Ma questo è avvenuto senza che si consolidassero nuove forze politiche, anzi con una sorta di regressione da partiti-organizzazione a partiti-movimento o meri sèguiti elettorali, con un ulteriore aumento della distanza tra iscritti e votanti e con una forte componente leaderistica.

Anche per l’incapacità di creare una classe dirigente, il nuovo assetto politico, pur avendo assicurato per un quarto di secolo un’alternanza al potere (che nel cinquantennio precedente non c’era stata), non è riuscito a frenare il declino industriale e il rientro dal debito, reso più difficile a partire dal 2008 dalla crisi economica mondiale.

In questo ultimo quarto di secolo è continuato il tentativo "avviato nel 1983 con l'istituzione della Commissione Bozzi" di modificare il sistema di governo previsto dalla Costituzione, con due scacchi, quello subito da Berlusconi nel 2006 e quello subito da Renzi nel 2016. E si sono inseguite le formule elettorali: legge Mattarella del 1994, per tre quarti maggioritaria e un quarto proporzionale; legge Calderoli del 2005, proporzionale con premio di maggioranza e liste bloccate; legge Renzi del 2015, proporzionale con correzione maggioritaria; legge Rosato del 2017, per due terzi proporzionale e un terzo maggioritaria.

Nella sfera pubblica, infine, si è registrato un aumento di almeno venti punti dell’astensionismo, una crisi della forma partito (alcuni partiti hanno esaurito i loro obiettivi, tutti i partiti hanno perso le caratteristiche di istituzioni di formazione e selezione della classe politica), un’alta volatilità dei votanti, la formazione di vere e proprie divaricazioni di saperi e competenze, e di dislivelli linguistici e culturali, un abbassamento del livello di competenza dei parlamentari, un continuo peggioramento della qualità del governo e della pubblica amministrazione, una accentuazione del ruolo del leader piuttosto che di quello delle élite, un aumento degli istinti suicidi della classe dirigente, che si è messa da sola sul banco degli imputati, con ripetuti attacchi alla «casta», continua enfatizzazione della sua corruzione, coltivazione dell’antipolitica.

In conclusione, il quarto di secolo che va dal 1993-94 al 2018 ha posto altre premesse per i cambiamenti successivi, contribuito a «liquefare» i partiti-incubatori su cui la democrazia si era retta nel primo cinquantennio, messo sotto accusa quel po’ di élite che c’era, sviluppato la democrazia come leaderismo.

Ci sono momenti nella storia nei quali il precipitato di debolezze antecedenti fa massa, e — per così dire — eventi preparati nel passato si ripresentano insieme e presentano il conto ai tempi nuovi. Questo è accaduto nel 2017-2018.

Le istanze populistiche erano presenti fin nella Costituzione. È bastato che una forza politica evocasse il mito roussoviano del potere rimesso direttamente nelle mani del popolo, aggiungendo che la diffusione di Internet consentirebbe a tutti di esprimersi su tutto, perché la credenza nella democrazia diretta e nella sovranità popolare rivivesse e si dimenticasse la seconda parte della frase della Costituzione, secondo la quale il popolo «esercita [la sovranità] nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Il «desiderio insaziabile di eguaglianza», la richiesta crescente di diritti, svincolata dalle circostanze storiche, il senso della democrazia illimitata, alimentata dalla stagione dei diritti e dalle richieste giovanili ed operaie del ’68 (fino agli estremi di Nanni Balestrini, «Vogliamo tutto» (1971): «Compagni, rifiutiamo il lavoro. Vogliamo tutto il potere. Vogliamo tutta la ricchezza») hanno condotto alla richiesta per tutti di un «reddito di cittadinanza», cioè di poter vivere senza lavorare.

I trasformismi dei partiti «liquidi», i cambiamenti di «casacca» (passaggi di parlamentari da un gruppo all’altro), la relativa chiusura dei vertici partitici, non facilmente «scalabili», invece di suggerire l’alternanza al potere, hanno suggerito di proporre deleghe temporanee e «cambi veloci».

I modi della comunicazione sono cambiati: alla discussione nelle sedi dei partiti si sono sostituiti i talk show e lo scambio solitario nella rete, one to one o one to many, la diffusione dei quotidiani si è in breve tempo dimezzata, gli intellettuali pubblici o sono silenti, o enfatizzano sentimenti diffusi, invece di filtrare, analizzare, valutare, ragionare.
Un sondaggio del gennaio 2018 mostra che il 54 per cento degli italiani pensa di essere in credito verso l’Italia (era il 49 per cento due anni prima).

Tutto questo ha accentuato l’inquietudine sociale, che ha alimentato la rabbia, il rancore, comunque il malessere, e che è stata intercettata da forze a vocazione cesaristica, interessate meno a quel che bisogna fare e più a chi accontentare («a me non interessa la politica, interessa l’opinione pubblica»:
Gianroberto Casaleggio). Le basi della società non sono scosse, ne è turbato l’animo.

Sarebbe sbagliato attribuire meriti e demeriti della svolta alle due forze politiche che, sia pur minoritarie, sono riuscite a mettersi d’accordo. Le ragioni della loro vittoria risalgono a tutto il settantennio, che l’ha in qualche modo preparata. In particolare, i governi guidati dal Pd che hanno preceduto il governo affermatosi dopo le elezioni del 2018, nel tentativo di rivitalizzare la sinistra e di portare le istanze populistiche in una diversa direzione, hanno usato argomenti populistici, adoperato il potere della borsa per finalità distributive, piuttosto che per investimenti, utilizzato lo strumento leaderistico, dimenticato il partito-organizzazione e i suoi legami con la società, insistito sul cambiamento (la «rottamazione»), enfatizzato la corruzione. In questo senso, i vinti hanno aperto la strada ai futuri vincitori.

Riflettendo sul crollo del mondo antico, lo storico francese René Grousset ha osservato che «nessuna civiltà viene distrutta senza essersi prima rovinata da sola, nessun impero viene conquistato dall’esterno, senza che precedentemente fosse già suicida».

Ho letto il saggio di Cassese con estremo interesse, trovando le sue analisi puntuali, acute ed obiettive. Un saggio di cui insomma consiglio la lettura...

Sabino Cassese, «La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia» (il Mulino, pagine 300, euro 18)

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