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Per regolare l’immigrazione ci vuole un patto tra paesi

di Mariapia Mendola e Giovanni Prarolo

Se si chiude una rotta migratoria verso l’Europa, subito se ne apre un’altra. Per questo nessun paese può pensare di contrastare da solo l’immigrazione irregolare. Serve una politica multilaterale di apertura di vie legali di accesso e corridoi umanitari.

Le ambiguità italiane

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato il Global Compact for Migration, l’accordo adottato lo scorso 12 dicembre dalla conferenza intergovernativa di Marrakech che definisce un coordinamento internazionale per una sicura, ordinata e regolare migrazione.
L’Italia ha prima deciso di astenersi dal sottoscrivere l’accordo, rimettendo la scelta al parlamento, ora continua a rimandare la decisione definitiva.
L’assenza di una posizione del governo è sorprendente vista la centralità dell’immigrazione nel dibattito e nel programma politico della maggioranza.
La migrazione è oggi un fenomeno globale e nessuna nazione da sola può realisticamente gestirlo senza un coordinamento sia fra paesi riceventi sia fra paesi di destinazione e di origine. E mentre i canali regolari per entrare e lavorare in Europa si sono progressivamente esauriti (se si escludono i ricongiungimenti familiari), al centro del dibattito è balzata con forza la migrazione irregolare. Per combatterla sono diventate sempre più popolari le politiche di controllo delle frontiere e di respingimento degli immigrati irregolari, nonché la progressiva riduzione dei diritti dei richiedenti asilo e aiuto umanitario. Ciò avviene nonostante i richiedenti asilo o protezione umanitaria raramente possano migrare legalmente, come riconoscono le stesse norme internazionali sull’asilo.
In Italia, questo tipo di approccio ha subito una forte accelerazione nel 2008, anno in cui fu stipulato il “Trattato di amicizia” tra l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il colonnello Gheddafi. L’accordo prevedeva un forte investimento dell’Italia in Libia in cambio del pattugliamento delle coste e del controllo (trattenimento forzato) degli immigrati irregolari. A decretarne la conclusione sono stati gli avvenimenti del 2011: la “primavera araba”, che ha portato alla crisi libica e alla fine del regime di Gheddafi.

La rotta Libia-Italia

In un nostro recente lavoro con Guido Friebel e Miriam Manchin  mostriamo come quello shock geopolitico abbia immediatamente aperto la rotta migratoria irregolare del Mediterraneo centrale, che collega la Libia all’Italia. Ricostruendo la rete delle rotte migratorie internazionali fra tutti i paesi africani e del Medio Oriente verso i paesi europei studiamo quindi se, e in che modo, l’apertura del canale libico abbia influenzato l’intenzione di emigrare degli individui nel resto del continente. I cambiamenti delle rotte migratorie avvenuti a cavallo del 2011 hanno modificato anche le distanze bilaterali tra paesi, e dunque i costi di trasporto lungo quelle rotte, che nella stragrande maggioranza dei casi sono controllate dai “trafficanti di uomini”. Altrimenti detti passatori o favoreggiatori, questi sono genericamente intesi come coloro che favoriscono il trasporto dei migranti attraverso le frontiere fra paesi africani e attraverso il Mediterraneo: per la scarsità di infrastrutture e di trasporto pubblico, il ricorso ai servizi dei “trafficanti” è la norma in Africa, e non l’eccezione.
Le variazioni delle distanze lungo le rotte migratorie rappresentano quindi le variazioni nei costi di emigrare illegalmente prima e dopo la primavera araba.

Poiché esclude i paesi interessati dalle primavere arabe e l’anno in cui avviene lo shock, la nostra analisi non misura l’impatto dello shock di per sé, bensì misura gli effetti collaterali del cambiamento nel costo relativo di migrare attraverso vie irregolari. Il risultato è che al netto di ogni altro evento accaduto nei singoli paesi di origine e destinazione (come conflitti, dinamiche occupazionali o altre grandezze macroeconomiche) e al netto di legami bilaterali di lungo periodo (come l’utilizzo della stessa lingua, il passato coloniale o la distanza), la riduzione della distanza bilaterale lungo le rotte migratorie causata dall’apertura del canale libico raddoppia, in media, le intenzioni migratorie individuali. Esaminando l’effetto eterogeneo, sia a livello dei paesi di origine che degli individui, osserviamo che una riduzione dei costi di emigrazione irregolare aumenta le intenzioni migratorie soprattutto di giovani, mediamente istruiti, con maggiori network sociali e che provengono da paesi con una bassa efficacia delle leggi. Quest’ultima caratteristica è spesso correlata a istituzioni deboli e a un basso livello di sviluppo economico.

Sarebbe semplice concludere che politiche di contrasto dell’immigrazione irregolare e di chiusura delle rotte migratorie siano la soluzione da adottare. Quello che la nostra analisi mostra, tuttavia, è che la risposta dei trafficanti a tale politica è rapida e che la reazione (o domanda) dei loro “servizi” è estremamente elastica al prezzo. Ciò vuol dire che il gioco del gatto-e-il-topo potrebbe continuare a lungo con politiche unilaterali (dove il topo è sempre più veloce del gatto). Una politica multilaterale di apertura di vie legali e corridoi umanitari di accesso ai paesi dell’Unione, insieme a misure integrate con le necessità dei paesi di origine, costituisce l’unico modo efficace per garantire i diritti dei migranti e contrastare gli affari dei trafficanti.

Va in questa direzione la proposta del Parlamento europeo  per l’emissione dei visti umanitari direttamente nelle ambasciate e consolati dei paesi europei localizzati nei paesi d’origine dei migranti. Anche in questo caso, tuttavia, le forze politiche che compongono il nostro governo erano contrarie o assenti.

(da www.lavoce.info - 27 gennaio 2019)

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