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Concorrenza sì, ma non sleale

di Adriana Cerretelli

Ma il mercato unico europeo con oltre 500 milioni di consumatori è sempre una grande opportunità per tutti i Paesi dell’Unione o è diventato una giungla di regole superate, in certi casi il laboratorio occulto di trucchi e rapine organizzate ai danni dei partner della porta accanto? L’estate scorsa, appena insediato all’Eliseo, Emmanuel Macron lanciò la crociata contro la direttiva della Ue sui lavoratori distaccati.
La direttiva permette ai lavoratori dell’Est di operare in Francia, per periodi limitati, senza percepire salari e coperture sociali francesi ma mantenendo quelli, molto più bassi, dei rispettivi Paesi d’origine. Concorrenza sleale, intollerabile dumping sociale tuonò il presidente, brandendo con la Commissione Ue il nuovo slogan “stesso lavoro, dovunque stessa retribuzione” in Europa. Poi le modifiche della direttiva hanno smussato alcuni angoli ma non hanno lanciato la controrivoluzione. Non ancora, almeno.

Da anni l’Irlanda con l’imposta sulle società al 12,5% è diventata il campione europeo del dumping fiscale, perlomeno di quello conclamato. L’altro, quello sommerso dei paradisi off shore o dei tax rulings che hanno fatto e fanno le fortune di Lussemburgo, Olanda & Co. attirando i capitali delle multinazionali alla ricerca di tassazione minima ed elusione massima, ha riempito la cronaca degli ultimi mesi.

Minacce tante, risultati concreti pochi e da verificare. Unica eccezione Margrethe Vestager, il commissario Ue alla Concorrenza che ha messo con le spalle al muro imprese e Stati compiacenti, accusandoli di distorcere la concorrenza nel mercato unico con aiuti pubblici illegali mascherati da agevolazioni fiscali a tappeto. Quindi da restituire, ricorsi presentati dagli interessati in Corte di Giustizia permettendo.

Non a caso ieri Carlo Calenda è andato proprio da Vestager per combattere il dumping industriale che ora taglieggia l’Italia (ma non solo) con due nomi: Embraco del gruppo Whirlpool e Honeywell, entrambe in procinto di delocalizzare le produzioni in Slovacchia con inevitabili licenziamenti al seguito. Nessuna tentazione protezionistica, chiarisce il ministro dello Sviluppo, ma la legittima ricerca di concorrenza ad armi pari tra partner del mercato unico Ue.

Come? Prima di tutto verificando che i vantaggi offerti da Bratislava per attirare capitali non contengano aiuti di Stato illegali, magari con l’aggravante dell’uso (vietato) dei fondi strutturali Ue per finanziare ancora più generosi sconti fiscali.
E poi, per affrontare alla radice il problema delle delocalizzazioni a Est, autorizzando l’Italia a dotarsi di un Fondo di reindustrializzazione che preveda l’erogazione di aiuti pubblici a maggiore intensità, rispetto al normale codice europeo, a favore delle aree colpite da rivitalizzare.
Vestager sembra disponibile a studiare la proposta Calenda: sa che l’adozione di ammortizzatori sociali e fiscali, come il varo di una coerente politica industriale europea, sono ormai urgenti.

Usurato, per chiudere il cerchio, anche dal dumping monetario di Paesi come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania che non hanno adottato l’euro e non intendono farlo per avere mano libera sul cambio, il mercato unico appare un campo minato. Che rischia di saltare sulle proprie contraddizioni strutturali, paradossalmente quando si studia come costruire una nuova Europa più efficiente, coesa e credibile. Quando nacque nel 1993 era formato da 12 Paesi, più o meno omogenei. Poi, si è allargato, fino agli attuali 28 membri, incamerando immense divergenze culturali, politiche, sociali, economiche e fiscali. Con l’idea che la concorrenza tra diseguali avrebbe sanato squilibri e conflitti di interessi più e meno profondi, con mutuo vantaggio per tutti: per l’Ovest che trovava la sua “Cina” dietro l’orto di casa e per l’Est che poteva colmare i ritardi sfruttando la ricca prateria di sviluppo dell’Europa ritrovata.

Invece l’illusione della buona globalizzazione, europea e mondiale, si è presto infranta per tutti. Unica eccezione, forse, la Germania, impermeabile a quasi tutti i dumping altrui perché i suoi prodotti di alta qualità “non si vendono ma si comprano”, come dice un vecchio adagio. E perché con i mini-jobs da 400 euro al mese per anni ha fatto dumping sociale in casa propria senza ricorrere ai lavoratori polacchi.
Per gli altri l’Unione troppo sbilanciata tra Est e Ovest diventa un gioco insostenibile. Un conto, dice Calenda, è misurarsi con Francia, Germania, Spagna: la loro diversa tassazione dipende dall’efficienza dei rispettivi sistemi fiscali e non dai loro diversi stadi di sviluppo. Un conto è competere coi Paesi dell’Est che hanno bassi costi di lavoro ed energia (in quanto consumano carbone) e imposte basse e che ricevono copiosi aiuti Ue che liberano dai loro bilanci risorse per attirare investitori esteri. Ma se si vuole salvaguardare il mercato unico nell’interesse comune, nessuno può cannibalizzare nessuno.
Le regole vanno aggiornate, le distorsioni di concorrenza sanate. Il gioco è difficile. Corre sul filo del rasoio delle già troppo acute ed esplosive diffidenze Est-Ovest. Ignorare la sfida oggi potrebbe però essere ancora più pericoloso che affrontarla.

(dal Sole 24 Ore - 21 febbraio 2018)

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