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Industria 4.0 o zero industria: l’aut aut da evitare per l’Europa

di Alberto Orioli

L'alternativa strategica non può essere l'aut aut tra Industria 4.0 e zero industria. Nel mezzo c'è un sentiero neanche tanto stretto dove deve passare la transizione italiana ai nuovi modelli produttivi. Un cammino perenne fatto di innovazione e adattamento, ritmato dalla velocità di obsolescenza delle tecnologie (anche produttive) e alle sempre mutevoli condizioni del mercato del lavoro globalizzato.

Le due narrazioni dell'Italia offerte in questi giorni dalle cronache (il boom di investimenti in macchinari che ha cambiato pelle alle fabbriche e l'esplosione delle crisi come quella alla Embraco) al di là del paradosso degli opposti impongono uno sguardo nuovo alla politica industriale. Industria 4.0 ha avuto successo perché è stata l'applicazione intelligente di una politica dei fattori (e non dei settori) e ha creato condizioni generali per competere ad uso delle imprese più vocate all'innovazione; ora, se quel percorso dovrà continuare, sarà necessario identificare i nuovi fattori su cui puntare energie e risorse.

La nuova pianificazione andrà fatta sulla priorità della crescita e sulle fabbriche del futuro e non su come mantenere “fabbriche zombie”, logica troppo spesso retrostante alle politiche di welfare, costruite in anni in cui mantenere lo status quo era più semplice che non scommettere sul cambio di paradigma o sulla gestione di una transizione sempre complessa.
La nuova fase però impone un cambio di rotta nell'indirizzo della policy e la gestione della «transizione permanente», come la chiama il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, non può non diventare l'unico metodo di riferimento.

L'idea di creare un globalization adjustment fund, un fondo di adattamento alla globalizzazione su scala europea è un'idea positiva che va nel senso dell'Europa inclusiva e più “sociale” su cui l'Italia si sta spendendo da tempo anche quando propone una forma di assicurazione europea sulla disoccupazione.
È evidente che occorre immaginare forme di assistenza le più efficienti possibile per chi perda il lavoro, ma predisporre un set di strumenti finanziari e di agevolazioni utili a facilitare una riconversione di impianti o l'outplacement del personale va nella direzione giusta. Ed è l'unico modo razionale per superare la nefasta corsa al ribasso che altrimenti impone il dumping sociale fatto da aree con livelli di sviluppo diversi e asimmetrici rispetto alle economie più mature del Vecchio Continente come è l'Italia, ad esempio, rispetto alla Slovacchia o ad altri Paesi dell'Est. Del resto sono gli stessi Trattati europei a garantire forme di flessibilità rispetto ai vincoli degli aiuti di Stato nel caso di fuga delle multinazionali in altre aree europee.

Si tratterebbe di ampliare l'esperienza dei contratti di sviluppo oggi gestiti - solo in chiave italiana - da Invitalia: possono contare su uno stanziamento complessivo di poco inferiore ai due miliardi per il periodo 2014-20. Finora sono stati finanziati 113 accordi e hanno creato (o salvato) 57mila posti di lavoro attivando 4,2 miliardi di investimenti.

Se questa ipotesi di lavoro - che va dal contributo a fondo perduto per gli impianti al finanziamento agevolato vero e proprio anche come garanzia per ulteriori contributi bancari - aumentasse la scala e diventasse un fondo europeo a tutti gli effetti probabilmente sarebbe più semplice gestire il passaggio delle imprese da un'area a un'altra. E tutto si risolverebbe in un vero e proprio sistema di vasi comunicanti. Senza contare che darebbe l'idea di un'Europa delle opportunità e non della concorrenza sleale che porta sempre e solo alla triste rincorsa ai salari più bassi e a un fisco rinunciatario. E toglierebbe l'acqua anche a chi in campagna elettorale propone l'intervento dei Carabinieri per costringere i capitali a restare dove stanno. E il fatto drammatico è che qualcuno ci crede.

(dal Sole 24 Ore - 20 febbraio 2018)

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