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Verso il voto. Statalismi di ritorno

di Francesco Giavazzi

In tempo di elezioni volendo acquisire consenso, l’unica strada che i politici riescono a percorrere è quella delle promesse

C’è una sorta di strabismo che colpisce i politici quando si avvicinano le elezioni. Volendo acquisire consenso, l’unica strada che riescono a percorrere è quella delle promesse. Promesse con cui vorrebbero rendersi paladini dei cittadini. E che quasi mai riescono a realizzare visto che, come spesso accade, sono promesse basate su maggiori spese che i conti dello Stato non consentono. Non è spiegabile altrimenti come negli ultimi anni si siano smarrite strade che ormai sembravano acquisite e che portavano benefici alla maggioranza dei cittadini, non a lobby organizzate. Il caso della concorrenza è emblematico. Ogni anno il governo, sulla base delle segnalazioni dell’Autorità antitrust, dovrebbe proporre al Parlamento una legge sulla concorrenza: lo prevede la legge 99 del 23 luglio 2009. In realtà in nove anni questo obbligo è stato rispettato solo una volta: dal governo Renzi nel 2015. E sì che i cittadini pensano che la concorrenza sia importante. Per l’84% degli italiani «amplia la libertà di scelta dei consumatori», per il 74% «consente un miglioramento della qualità di beni e servizi» (dati dell’Eurobarometro, indagine della Commissione europea). Ci sono voluti 30 mesi perché quella legge sulla concorrenza venisse approvata dal Parlamento. In quei 30 mesi le mille piccole rendite (tutte sulle spalle dei cittadini) che il testo iniziale della legge cercava di ridurre vennero in gran parte salvate. Ad esempio continuando ad obbligare i cittadini a rivolgersi ad un notaio per costituire una srl semplificata o per cederne le quote. O mantenendo il monopolio legale di Poste italiane sulla consegna degli atti giudiziari.

Quegli interessi particolari però non si sono accontentati. Ad esempio, la legge sulla concorrenza faceva un piccolo passo avanti per liberalizzare le farmacie: non aumentava le licenze ma almeno consentiva di trasferirle a società di capitali, con ovvi vantaggi per i consumatori che avrebbero potuto beneficiare dei minori costi di gestione di una grande farmacia rispetto ad una piccolina. Puntualmente pochi giorni fa è stato approvato un emendamento alla Legge di bilancio 2018 il cui scopo è dare un sussidio alla Cassa di previdenza dei farmacisti facendolo pagare alle società che acquisiranno farmacie. E ciò nonostante che quelle società e quei dipendenti già versino i contributi previdenziali. Insomma un regalo ai farmacisti che ostacolerà la crescita delle farmacie e quindi i benefici per i consumatori.

Dopo le liberalizzazioni del secondo governo Prodi (2006-2008) il virus dell’anti-mercato si sta di nuovo diffondendo. Per evitare che aziende «strategiche» vengano acquistate da «stranieri», il ministro Calenda ha riattivato e rimesso a nuovo i «poteri speciali». Si tratta di norme che consentono al governo di porre un veto o comunque delle condizioni a qualunque passaggio di controllo su aziende ritenute strategiche. Comprensibile l’idea di evitare «scorrerie». Ma il rischio di un’estensione a dismisura è reale. E poiché a Bruxelles queste norme protezioniste hanno trovato la comprensibile opposizione dei Paesi dell’Europa del nord, l’Italia ha deciso di fare da sola. Ma che cosa è un’azienda strategica? Passi per le aziende militari ma perché non anche il turismo? Siamo o no un Paese che vive di turismo? Si chiedeva ironicamente Franco Debenedetti sul Sole 24 Ore del 16 ottobre.

Non essendo riusciti a convincere l’Europa ad adottare una tassa comune sugli acquisti fatti via internet, anche qui abbiamo fatto da soli introducendo la cosiddetta web tax. E abbiamo fatto un pasticcio. Questa tassa non colpirà giganti come Google, Amazon e Apple, che già hanno o avranno a breve una stabile organizzazione in Italia. Come ha scritto su «L’Economia» del Corriere il 20 novembre Giampaolo Galli, deputato del Pd, si rischia «davvero una beffa se alla fine la pagassero i consumatori e le imprese italiane».

Oggi è l’anniversario della nascita di Carlo Azeglio Ciampi, 9 dicembre 1920. Da ministro del Tesoro, Ciampi trasferì al mercato, perlomeno in parte, la proprietà di Eni, Enel, Telecom, Autostrade, Aeroporti di Roma. Una stagione ormai lontana. Oggi si chiama privatizzazione la vendita di quote di aziende possedute dallo Stato alla Cassa depositi e prestiti, un ente del quale lo Stato ha la maggioranza assoluta. Una furbizia per fare cassa senza perdere il controllo delle aziende, e quindi il potere di nominarne gli amministratori. Come se gli investitori internazionali che possiedono il 40% del nostro debito pubblico non sapessero calcolare il nostro bilancio consolidato.

C’è insomma una sorta di ritorno al passato. Quanto siano determinati politica e sindacato a riprendersi il controllo di ciò che per un momento avevano perduto lo si vedrà presto all’Inps. Il professor Tito Boeri (mio collega alla Bocconi) fu nominato presidente dell’Inps da Renzi tre anni fa. In precedenza i presidenti dell’Inps erano stati, a turno, i segretari generali dei tre maggiori sindacati: Cgil, Cisl e Uil, nominati come ricompensa il giorno in cui scadeva il loro incarico. Successivamente sono stati tecnici vicini alla politica e al governo, ad esempio l’avvocato Paolo Sassi, consigliere giuridico dell’allora ministro del Lavoro, Roberto Maroni, che lo nominò prima commissario straordinario e poi presidente dell’istituto.

L’Inps da sempre è un’organizzazione in cui la fedeltà al sindacato conta molto di più della competenza: nel lavoro di tutti i giorni e soprattutto nella carriera. La scelta di Boeri di puntare sull’efficienza e la trasparenza — ad esempio riducendo le direzioni generali da 48 a 36 e arginando lo strapotere dei sindacati, specie in tema di nomine — ovviamente ha dato fastidio.
«Una delle cose che dovremo fare l’anno prossimo è quella di riconquistare la gestione della previdenza» ha detto Carmelo Barbagallo, segretario generale della Uil. «Salviamo il soldato Boeri!» ha scritto sul Foglio Carlo Stagnaro. Un’altra accusa che gli viene rivolta sono le sue incursioni tra il tecnico e il politico cioè dire quello che pensa dei tentativi di disfare la riforma Fornero. C’è da chiedersi se sarebbe davvero un comportamento responsabile, quello di confinarsi nel silenzio del civil servant. Ma forse è quello che vorrebbe una larga maggioranza delle forze politiche impegnate a comprare consenso elettorale. Un consenso da ottenere oggi, a spese dei lavoratori e dei cittadini di domani.

(dal Corriere della Sera - 9 dicembre 2017)

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