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Eversione e antidemocrazia le differenze sono nei fatti

di Ernesto Galli della Loggia

Le premesse per capire ciò che è in gioco alle prossime elezioni sono state bene illustrate qualche giorno fa sul Corriere (27 novembre) «Un centro di gravità per l’Italia» da Angelo Panebianco. Dal 1948 in avanti il nostro sistema politico è irresistibilmente attratto dal proporzionalismo, che per funzionare ha tuttavia bisogno, come lo stesso Panebianco lo ha chiamato, di un centro di gravità federatore delle varie parti geografiche, sociali e anche politiche del Paese. Vale a dire di un partito a vocazione maggioritaria - ma dalle molte anime o capace di attrarne molte (tipo quella che fu la vecchia Dc, poi per una breve stagione Forza Italia, e avrebbe voluto essere il Pd di Renzi). Il pericolo ovvio è quello del malgoverno consociativo, dovendo quasi sempre far convivere «il diavolo e l’acqua santa, quelli che vivono di mercato e quelli che vivono di spesa pubblica, le forze produttive e quelle improduttive, il profitto e la rendita», con le relative e più che probabili conseguenze sulla spesa pubblica.

Inutile aggiungere che la formazione di tale «centro di gravità» si giova assai dell’esistenza di un partito antisistema (com’era ad esempio il Partito comunista di una volta), il quale con la sua sola presenza obbliga i partiti del sistema a stare tutti quanti dall’altra parte: già solo per questo potenzialmente insieme. Si ha così una polarizzazione del sistema politico che sia durante la campagna elettorale che dopo legittima il riavvicinamento di formazioni partitiche anche diverse. A vantaggio per l’appunto del centro di gravità federatore.

Dato uno sfondo del genere si può dire che la sostanza vera del prossimo scontro elettorale sarà precisamente questo: «Grosse Koalition» destra/sinistra contro M5S. Ma se tale ipotesi è ragionevole, allora è altrettanto ragionevole pensare che l’enfasi sul carattere eversivo del M5S — che in questi giorni anima il dibattito politico — risponda in realtà a due obiettivi: a) già oggi come ottima arma polemica del Pd e di Forza Italia contro il loro principale concorrente, b) in vista del dopo elezioni per preparare il terreno a un’eventuale maggioranza governativa con la partecipazione di entrambi (intorno a quale dei due come centro di gravità federatore si vedrà dopo i risultati delle urne).

Se però così è, allora mi chiedo: è lecito tratteggiare un quadro nei termini ora adoperati, e magari dire delle ragioni del consenso dei 5 Stelle senza tuttavia passare per manutengolo di Di Maio o reggicoda di Beppe Grillo, senza essere additato come tipico rappresentante dell’intellettualità vigliacca pronta a stare sempre dalla parte del (presunto) vincitore? No, non è lecito, si risponde da molti, perché del movimento di Grillo si può parlare solo per maledirlo. Tu dimentichi, mi è stato rinfacciato, che esso è effettivamente un movimento eversivo. Non ti curi del fatto — ha scritto, ad esempio, sul Mattino Biagio de Giovanni, la cui figura intellettuale e politica merita un risposta — che l’impianto polemico-protestatario dei 5 Stelle, le loro campagne demagogiche contro la «casta», contro i vitalizi e quant’altro, il loro disprezzo per tutti coloro che non condividono il loro punto di vista o li criticano, tutto ciò non solo delinea effettivamente una posizione incompatibile con una visione dialogica e pluralista della politica, con il rispetto per l’altro che la democrazia richiede, ma vale altresì a diffondere sempre di più analoghi atteggiamenti pericolosi nella più vasta opinione pubblica. Diffonde a piene mani germi di antidemocrazia.

In realtà non credo di dimenticare nulla. Semplicemente ricordo un po’ delle passate vicende politiche di questo Paese nell’età della Repubblica. Nel corso delle quali non sono davvero mancate forze che si presentavano come protagoniste di una palingenesi che non ammetteva alternative. Non sono davvero mancati partiti che consideravano tutto ciò che era diverso da loro alla stregua del «male», che usavano il Parlamento solo come cassa di risonanza di quanto avveniva fuori da esso. Le une e gli altri, quindi, originando un effetto eversivo moltiplicatore: non tanto e non solo, per l’appunto, nel comportamento dei loro esponenti di vertice ma sulle grandi masse dei cittadini-elettori. Di forze del genere ne abbiamo conosciuto un vasto campionario. E della qualità più diversa. Qualcuno ricorda, ad esempio, che cosa era il Partito comunista degli anni ’50-60? Truman dipinto come un nazista, gli Usa accusati di diffondere il bacillo della peste in Corea, la Democrazia cristiana additata in Tv al disprezzo popolare da Pajetta come un «magma corruttivo», le grottesche fake news diffuse sull’Urss. E il Pci successivo della propria insistita, autocelebrata «diversità»? Domando: aveva tutto ciò, diciamo così, un tono vagamente palingenetico-aggressivo o erano cose che educavano le masse al rispetto dell’avversario e alla democrazia? E il nonviolento per antonomasia Marco Pannella, era forse un esempio di distinguo dialogico quando faceva oggetto delle accuse più indistinte e sommarie «la partitocrazia», o quando per esempio accusava ossessivamente dalla sua radio «la P2, P3, PScalfari» e tutto il maledetto «arco costituzionale» a cominciare dal Pci di aver voluto la morte di Aldo Moro e di non so più quante altre efferatezze? E Berlusconi? Ci siamo dimenticati di Berlusconi? Ci siamo dimenticati la «Costituzione sovietica», «Romolo e Remolo», la vittoria elettorale spacciata per una sorta di incoronazione lustrale della sua persona, la delegittimazione continua della magistratura, il dominio personale assoluto sui suoi parlamentari, la compravendita di quelli altrui? Eh sì, ce ne sono nella storia della Repubblica di menzogne politiche montate più o meno ad arte, di giudizi violenti e ingiusti, di offese alla democrazia! Il «caso Montesi», la campagna micidiale contro il commissario Calabresi, la diffamazione a freddo che distrusse un Presidente della Repubblica, sono cose accadute in Italia o dove?

La Repubblica, insomma, non ha davvero tutti i conti in regola, mi sembra, con quel modello democratico che oggi talvolta ci piace d’invocare. La sua storia tormentata è piena di idee, persone e momenti antidemocratici. Abbiamo conosciuto l’antidemocrazia, quella sì e anche a piene mani. Però mai l’eversione, per fortuna, salvo quella demente del terrorismo o di ridicoli conati golpisti. Antidemocrazia ed eversione sono cose differenti. Il Pci ad esempio era un partito antidemocratico ma non eversivo; egualmente, a Silvio Berlusconi la cultura e le forme democratiche sono sempre state sostanzialmente estranee, ma altresì nulla è mai stato più lontano dalla sua mente che un qualche proposito eversivo. Allo stesso modo ancora, oggi il partito di Grillo (posso dirlo? né più né meno come una parte significativa dei nostri concittadini) è certamente percorso da pulsioni antidemocratiche anche profonde e sgradevolissime, e quanto alle buone maniere democratiche non sembra neppure sapere che cosa esse siano. Ma da questo a essere un partito eversivo a me pare che ce ne corra. Per essere antidemocratici bastano, diciamo così le parole, molte idee sbagliate e un assai modesto livello di fatti. Se invece si tratta dell’eversione, allora è diverso. All’eversione, infatti, servono l’azione, l’azione grossa, quella inevitabilmente violenta, premeditata, quella che si brucia i vascelli alle spalle. E invece Beppe Grillo - non se ne abbia a male – come eversore mi sembra più adatto a una parte di comprimario in «Vogliamo i colonnelli» che a quella di protagonista in «Il grande dittatore».

(dal Corriere della Sera - 3 dicembre 2017)

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