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L’ascesa della destra intollerante? È colpa della sinistra (e della sua intolleranza)

di Francesco Francio Mazza

Negare il diritto d’opinione a chi non la pensa come vorrebbe il politicamente corretto è il modo migliore per farne un mito. Vale per gli americani col caso Yiannopulos, così come coi fascisti di casa nostra

Praticamente sconosciuto in Italia, Milo Yiannopoulus è un fenomeno web da qualche milione di followers sparsi in giro per il mondo.

Si tratta di una sorta di animale mitologico iperrealista, metà Diego Fusaro e metà Favij, che deve la sua fama a dei video autoprodotti diffusi sui social in cui Milos, britannico e gay dichiarato, sfoggia con sapienza retorica tutto il corredo del populista moderno: dall’Islam alle élite finanziarie, dal femminismo a “Black Lives Matter” Milo ha sempre un insulto buono per tutti.

Inizialmente confinato nel ghetto dei media di estrema destra, ben presto il suo successo online lo ha imposto come punto di riferimento per i giovani conservatori Americani, che hanno preso a invitarlo a parlare nei campus delle Università più prestigiose del Paese.
E qui è accaduto il finimondo: gli studenti liberal, ovvero la stragrande maggioranza, sono insorti all’idea che fosse dato diritto di parola a un sostenitore di idee a un tempo controverse (il movimento femminista come di marketing) o esageratamente reazionarie (l’aborto come omicidio da mettere al bando per legge) e hanno dato vita a tumulti di piazza come non se ne vedevano dai tempi del Vietnam.
Molte delle sue conferenze sono state cancellate, altre si sono svolte in un clima da anni di piombo: l’Università di Berkley ha stimato in 2,5 milioni di dollari i costi, tra danni e misure straordinarie di sicurezza, spesi per ospitare i discorsi di Milos e di altri oratori della stessa area politica (Ben Shapiro, Charles Murray, Ann Coulter).

Gli Stati Uniti si sono trovati così davanti a un totale ribaltamento di prospettiva: le Università Americane, templi della libertà di espressione moderna, si sono dimostrate incapaci di garantirla; al contrario, giovani tromboni reazionari ne sono diventati i più fieri portabandiera.
È per questo che in molti sono sobbalzati dalla sedia quando lunedì scorso, Erwin Chemerinsky, Presidente della facoltà di Legge di Berkeley, ha affermato il pieno diritto delle Università a vietare discorsi ed interventi a personaggi come Milo. Secondo lui non si tratterebbe di censura quanto di un mero discorso economico: ogni Università deve essere libera di fare i suoi conti e, se giudica troppo oneroso ospitare un certo commentatore, ha piena facoltà a negargli la parola senza che nessuno abbia diritto a scandalizzarsi.

Tale ragionamento, intriso da quella ipocrisia a stelle strisce che ben conosciamo, costituisce la negazione perfetta del concetto stesso di libertà di espressione così come inteso a suo tempo da Voltaire: se l’unica idea tollerata è l’idea condivisa (non importa se e quanto da noi ritenuta “giusta” o sbagliata”), se l’unico con diritto di cittadinanza è l’oratore che per esprimersi non ha bisogno di misure di sicurezza, allora da Roberto Saviano fino al Dalai Lama molti campioni della libertà di espressione contemporanea sarebbero spacciati.
Tuttavia, il fatto che il Presidente di una delle facoltà di Legge più prestigiose del pianeta ragioni su un tema così importante con il piglio della massaia al mercato rionale, alle prese con la scelta se comprare o no un detersivo piuttosto che un altro, non solo non rappresenta un inedito ma è anzi assolutamente coerente con il modo in cui da anni, ad ogni latitudine, i liberal interpretano il discorso pubblico.
Invece di garantire a Milo Yiannopoulus il suo diritto a esprimersi per poi affrontarlo su temi concreti, per esempio spiegando a lui e a suoi seguaci quanto l’Islam – come mostra il recente attentato in Egitto – sia vittima e non carnefice dell’attuale Scontro di Civiltà, preferiscono metterlo al bando, con l’unico effetto di trasformare in mito un conclamato mitomane, finendo per rafforzarlo e moltiplicarne il seguito.
Non è molto diverso da quanto accade intorno all’eterno dibattito sulle presunte ingerenze Russe nelle elezioni dello scorso anno. Invece di spiegare come sia stato possibile che il Partito Democratico abbia falsato le Primarie, che Bernie Sanders sia stato costretto alla sconfitta per effetto di una precisa strategia organizzata internamente al suo partito, si preferisce addossare tutta la colpa ai famigerati “troll di Mosca”.
Fa nulla che una liberale vera e tosta come Susan Sarandon abbia detto in settimana chiaro e tondo che se avesse vinto, Hillary sarebbe stata molto, molto pericolosa per gli Stati Uniti d’America. La grande “narrazione” dei media main-stream spesso riporta i fatti in modo molto, troppo liberal, e invece di riflettere sulla Verità di Debbie Wasserman Schultz, la Responsabile delle Primarie costretta alle dimissioni e poi riassunta nello staff della Clinton, si incaponisce sulla Post-Verità di Vladimir Putin come oscuro burattinaio dei destini della Galassia.

Valido per quelli degli Stati Uniti, lo schema si applica perfettamente anche ai liberal Europei.
Invece che spiegare come mai, nella Gran Bretagna della Brexit, nella Francia del Fronte Nazionale o nell’Italia del Movimento Cinque Stelle la sinistra abbia abbandonato al suo destino interi settori della popolazione che, un tempo, costituivano il suo oggetto sociale, si preferisce tirare fuori la storia delle fake news e gli improbabili “dossier” compilati da personaggi misteriosi spesso in conflitto di interessi.
“Dossier” in cui, con un incredibile disprezzo per Gramsci e una concezione del potere di persuasione dei mass media superata perfino negli anni ‘50, si considera il popolo come una massa di lobotomizzati eterodiretti, pronti a bersi qualunque fandonia partorita dal più somaro dei BOT per poi correre a dare il proprio voto sulla base di un meme.
Se la situazione politica italiana volteggia sull’orlo del baratro, il motivo non è certo perché qualche grullo crede davvero che la Boschi sia andata al funerale di Riina; ma perché un anno fa, con un errore politico che resterà nei libri di Storia, Renzi decise di personalizzare un referendum Costituzionale da cui uscì travolto.
E dalla politica alla società: se ci si azzarda a dire, riguardo al recente scandalo delle molestie, che azzerare l’intera carriera di un artista sulla base di un’accusa non verificabile è esercizio che poco ha a che vedere con la presunzione di innocenza - in teoria altro caposaldo dello Stato di Diritto - si viene immediatamente costretti al silenzio. Per informazioni, chiedere al giornalista CNN Dylan Byers, che in un tweet rifletteva su come nelle ultime settimane, gli Stati Uniti abbiano cancellato l’intera produzione di alcuni tra gli artisti più celebrati degli ultimi decenni sebbene nessuna sentenza sia stata ancora scritta: è stato massacrato da una shitstorm senza precedenti e costretto a una galileiana abiura.

Impegnati in una continua reduction ad hitlerum, i media main-stream capitanati dal New York Times e il mondo liberal nel suo complesso, continuano a postulare l’esistenza non di idee sbagliate da confutare dialetticamente, ma di una Morte Nera sul punto di distruggere la Galassia contro cui scatenare una Guerra Santa.
Il problema è che censure, allarmismi e dossieraggi assortiti non sono altro che inequivocabili segni di paura e debolezza, che permettono alle idee sbagliate di diffondersi senza contraddittorio, e consentono a chi li subisce di presentarsi come un perseguitato agli occhi del popolo che, come si sa più o meno dal 33 Dopo Cristo, per i perseguitati ha sempre avuto un debole.

Tutto il mondo sembra insomma diventato un grande, unico PCI, dove ad essere tollerata è solo la linea dettata dal partito.
Chi crede nella libertà non si è mai sentito così solo.

(da www.linchiesta.it)

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