logo Fucinaidee

L’America che serve al futuro dell’Europa

di Angelo Panebianco

Per chi ha una visione determinista della storia, Donald Trump, con la sua politica estera debole e ondivaga, è una manifestazione dell’inevitabile declino statunitense. Chi non condivide quella visione spera che il prossimo Presidente riesca a porre fine a una assenza troppo lunga e pericolosa

Troppa America o poca America? Cosa conviene di più al mondo (e all’Europa)? Dopo il 1945 , per tutta la Guerra fredda ma anche oltre, almeno fino alla crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007 (che indebolì gli Stati Uniti economicamente e politicamente), il mondo si era sempre diviso in due: quelli che sostenevano l’America, le chiedevano di proteggere le loro libertà (dove c’erano) e di favorirne la nascita (dove non c’erano) e quelli che contrastavano con ogni mezzo l’imperialismo yankee. Anche nell’Europa occidentale, protetta dalla Nato, la quale impediva all’Unione Sovietica di piantare gli artigli nelle sue vene, i due partiti, i filoamericani (maggioritari) e gli antiamericani si fronteggiavano. Gli antiamericani, a loro volta, erano divisi in due. Quelli che parteggiavano per l’Unione Sovietica (soprattutto in Italia e in Francia dove c’erano forti partiti comunisti) e quelli che si limitavano a sognare un’Europa «terza forza» (fra Stati Uniti e Urss).

Anche in materia di integrazione europea, infatti, il gioco delle alleanze e delle opposizioni era complicato. Gli europeisti non erano tutti uguali, non volevano l’Europa per le stesse ragioni. Il campo europeista era diviso — esso pure — fra filoamericani e antiamericani. Per una parte degli europeisti si trattava, attraverso l’integrazione europea, di rafforzare il mondo occidentale. Essi immaginavano che gli Stati Uniti e l’Europa avrebbero mantenuto una solida partnership.

Questa partnership avrebbe consentito agli Stati Uniti e all’Europa di diventare, nel mondo, una forza irresistibile a sostegno di principi e istituzioni (libertà, democrazia, mercato) a cui attribuivano valenza universale. Per un’altra parte di europeisti, invece, si trattava di costruire un’Europa capace di sbarazzarsi della tutela americana. Giocava l’ambiguità che era stata propria del processo di integrazione fin dall’origine. Era stato sponsorizzato dagli americani in funzione antisovietica. Ma, a causa del fatto che la spinta iniziale era venuta dall’Europa cattolica (cattolici erano i padri fondatori: il tedesco Konrad Adenauer, il francese Robert Schuman, l’italiano Alcide De Gasperi), erano riconoscibili anche le tracce — tenute un po’ nascoste, in tempi di Guerra fredda — della diffidenza di certe componenti del mondo cattolico per le democrazie protestanti, America in testa.

Il «troppa America» di allora, dunque, infastidiva molti, anche se in Europa era la maggioranza, e nel resto del mondo erano comunque tanti, a riconoscere l’indispensabilità degli Stati Uniti. Gli avversari del «troppa America» oggi sono accontentati. L’America di Trump (ma c’erano avvisaglie anche all’epoca di Obama) latita, si è data alla macchia, nessuno sa dove sia. Carlo Bastasin (Il Sole 24 ore, 3 novembre) ha segnalato l’assordante silenzio degli Stati Uniti nella vicenda catalana. In altre epoche, nessuno, a Bruxelles, a Madrid o a Barcellona, avrebbe potuto decidere alcunché senza fare i conti con l’America.
Oggi, in questa come in altre partite cruciali per il destino dell’Europa c’è un giocatore in meno: gli Stati Uniti si occupano d’altro. È un bene, pensano gli antiamericani: l’assenza dell’America rende l’Europa libera di decidere il proprio destino. Peccato che i rapporti interatlantici e l’integrazione europea siano legati a filo doppio: quando entrano in crisi i primi, entra in crisi anche la seconda.

Non promette nulla di buono il fatto che, proprio mentre l’America abbandona il campo, il vicino autoritario, la Russia, sia impegnato a intossicare (con attacchi informatici) le democrazie, a intimidire militarmente i Paesi Nato sul fianco Est, e a favorire le divisioni fra europei: in una Europa divisa e con una America in ritirata l’influenza russa potrebbe crescere in breve tempo.

«Poca America» c’è anche in Medio Oriente. Distruggere militarmente lo Stato Islamico è un’ottima cosa ma se poi non si gestisce politicamente il dopoguerra, si preparano nuove catastrofi. Dall’America sarebbe stato lecito aspettarsi un’iniziativa politico-diplomatica ambiziosa. Qualcosa di simile, per intenderci, a un Congresso di Vienna (quello originale ricostruì l’Europa dopo le guerre napoleoniche) in salsa mediorientale. Coinvolgendo, ovviamente, anche quella Russia che, grazie agli errori americani, è ormai stabilmente insediata nell’area.

Non ci sarà mai nessuna pace fin quando certe statualità mediorientali saranno fondate sull’oppressione feroce di questo o quel gruppo etnico o religioso su altri gruppi etnici o religiosi. Come ha scritto Paolo Mieli (Corriere della Sera, 2 novembre) stiamo vergognosamente abbandonando i curdi — che hanno combattuto sul terreno lo Stato Islamico — alle feroci rappresaglie di iraniani, sciiti iracheni, turchi, siriani. Stiamo ignorando il debito morale che abbiamo contratto con loro. Aggiungo che, abbandonando i curdi, stiamo (noi occidentali) operando anche contro il nostro interesse. Perché proprio dalla difesa dei curdi bisognerebbe partire per favorire soluzioni politico-diplomatiche che ridisegnino i confini, cerchino di sostituire gli «Stati falliti» dell’area con aggregazioni più stabili, non fondate su rapporti di oppressione etnico-religiosa. Naturalmente, ben poco si può pretendere, a causa delle sue divisioni e fragilità, dall’Europa. Dovrebbe essere l’America a provarci. Ma l’America, in Medio Oriente c’è militarmente, non politicamente.

Per chi ha una visione determinista della storia, Trump, con la sua politica estera debole e ondivaga, è solo la ciliegina sulla torta, una manifestazione dell’inevitabile declino americano. Chi non condivide quella visione spera che il prossimo Presidente riesca a porre fine a una assenza troppo lunga e pericolosa.

(dal Corriere della Sera - 4 novembre 2017)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina