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Le urne a marzo, poi il rischio che ci sia lo stallo. L’opzione estrema di tornarci a giugno

di Massimo Franco

Un rosario di incertezze e l’incognita Grasso sulla creazione di un quarto polo. Un Paese privo di governo, come avvenne in Spagna dopo le elezioni del dicembre del 2015 e giugno del 2016, preoccupa e spaventa

Il fatto che da alcune settimane si indichi la data del 4 marzo come probabile giorno delle prossime elezioni politiche è passato quasi inosservato. Si è detto che risponde alla fretta del vertice del Pd di andare alle urne, per interrompere una deriva logorante e altre scissioni; che è inutile tirare per le lunghe una legislatura agli sgoccioli, una volta approvata la legge di Stabilità: la si esporrebbe a una gara di provvedimenti estemporanei e elettoralistici. Ma a queste riflessioni, tutte pertinenti, se ne aggiunge un’altra che da tempo rimbalza tra i vertici istituzionali: la possibilità che dal voto emerga un Parlamento incapace di formare una qualsiasi maggioranza; e dunque che sia necessario fare subito nuove elezioni.

Maggioranza omogenea impossibile

Si tratta di uno scenario estremo, e altamente improbabile; ma che non può essere escluso a priori. D’altronde, tutti i sondaggi dicono che con la nuova legge elettorale sarà quasi impossibile formare una maggioranza omogenea: nessun partito né coalizione avrà verosimilmente la forza per governare. L’eventualità che a questo si aggiunga il rifiuto di collaborare, costringe a passare in rassegna tutte le possibilità: anche le meno augurabili. Ebbene, un voto entro la prima metà di marzo sarebbe l’unico che permetterebbe, una volta certificata l’ingovernabilità, di sciogliere di nuovo le Camere e rimandare l’Italia alle urne entro il mese di giugno: dunque, prima dell’estate.

Tensioni che si affastellano

Sarebbe l’esito di una campagna che sembra destinata a polarizzarsi e a radicalizzarsi. E quindi renderà difficile qualsiasi ricomposizione anche dopo, per ragioni non solo numeriche ma politiche. È anche per questo che tacitamente un po’ tutte le forze, di governo e di opposizione, non hanno fiatato sulla scadenza di marzo. I tempi imposti dalla Costituzione sono stretti, e in caso di impasse andrebbero abbreviati al massimo. Ma la prospettiva di una trattativa lunga e inconcludente e di un Paese privo di governo, come avvenne in Spagna dopo le elezioni del dicembre del 2015 e giugno del 2016, preoccupa e spaventa. È vero che in quel caso l’economia recuperò. In compenso, però, le istituzioni subirono un logoramento vistoso. Le tensioni che si stanno affastellando in questa fase fanno temere una deriva non troppo dissimile. Gli attacchi del vertice del Pd e di M5S e Lega a Bankitalia; l’ipotesi che la commissione parlamentare sul sistema bancario sopravviva allo scioglimento del Parlamento, diventando un’arma impropria sulla strada delle urne; lo scollamento tra il partito-perno della maggioranza e il «suo» premier, Paolo Gentiloni; l’offensiva polemica nei confronti dell’Unione Europea di un arco di forze tale da raffigurare il Paese come potenziale serbatoio dell’eurofobia; le tensioni permanenti in un Pd che guarda con apprensione al risultato delle Regionali in Sicilia di domenica prossima: tutto congiura per una frammentazione ancora più accentuata.

Futuro tutto da scrivere

Su questo sfondo va inserita anche l’uscita dal Pd della seconda carica dello Stato, Pietro Grasso, e le indiscrezioni sulla creazione di un «quarto polo» di sinistra: sebbene il presidente del Senato abbia informato preventivamente della sua decisione il capo dello Stato, Sergio Mattarella, e il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, rassicurandoli sul piano istituzionale. Significa che resterà al suo posto almeno fino all’approvazione della legge di Stabilità. Quanto al dopo, nonostante le voci il futuro è tutto da scrivere. La sensazione è che Grasso non si veda bene nei panni di un «secondo Giuliano Pisapia», l’ex sindaco di Milano calato sulla scena per unificare una sinistra alternativa al Pd, e uscitone dopo una lunga e inutile trattativa.

La strategia dell’«uovo fresco»

Semmai, il processo dovrebbe essere inverso: la diaspora dell’«altra sinistra» che si coagula, attira settori di opinione pubblica che si sono allontanati dalla politica. E poi offre a questi «sfrattati» dai partiti esistenti un nuovo contenitore e un leader con i contorni del coordinatore più che dell’aspirante premier. Sarebbe questa la strategia dell’«uovo fresco», immaginata dall’ex segretario del Pd, ora leader di Mdp Pierluigi Bersani: con Grasso nel ruolo di «uovo fresco» o «uomo nuovo» in grado di rappresentarli e di amalgamare un arcipelago dimostratosi finora ingestibile nella sua rissosità e autoreferenzialità. Per questo l’operazione continua a essere tutt’altro che scontata; e proietta l’ennesima ombra confusa sulla coda della legislatura. Anche perché un «quarto polo» guidato da Grasso non garantirebbe il dialogo con il Pd renziano dopo il 4 marzo. Anzi, confermerebbe una spaccatura difficilmente sanabile, dopo l’uscita dal Pd seguita all’approvazione della riforma elettorale in Senato con cinque voti di fiducia. Per paradosso, sarebbe visto come uno dei possibili interlocutori chiamati a istituzionalizzare dopo le elezioni un Movimento 5 Stelle ansioso di entrare nei giochi di governo; e da tempo a caccia di sponde che lo legittimino non agli occhi dell’elettorato ma dello «Stato profondo»: quello di cui un politico e ex magistrato rispettato come Grasso è espressione da anni.

(dal Corriere della Sera - 31 ottobre 2017)

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