logo Fucinaidee

La sinistra muore inseguendo le minoranze (che poi votano a destra)

 

di Alessio Postiglione

 

Per cercare i voti della minoranza che porterà alla rivoluzione in futuro, la sinistra dimentica le classi sociali che dovrebbe rappresentare. Prima era

il partito dei colletti blu, ora è diventata la gauche caviar dell'intellighentia borghese delle professioni sussidiate dallo Stato

 

Le sinistre, per inseguire il Sol dell'Avvenir, rischiano il tramonto del presente. Condannate all’irrilevanza, come dimostra l’ultima sconfitta elettorale

in Repubblica Ceca. Perché, per inseguire il feticcio del rivoluzionario di professione a cui affidarsi e affidare la palingenesi dell’umanità futura,

dimenticano le classi sociali che dovrebbero rappresentare qui ed ora.

    La sinistra, prima, ha puntato sul proletariato. Ma oggi le masse votano convintamente Salvini e soci. Poi, ha puntato sui giovani, ma si è scoperto - ohibò

-, che i giovani invecchiano. Quindi è arrivato il momento delle donne e dei gay; ma sembra che donne e gay si dividano casualmente fra destra e sinistra.

Ora è il momento dei migranti, a cui legare le proprie magnifiche sorti et progressive in attesa del giorno in cui bandiera rossa trionferà. Eppure, proprio

le politiche sui migranti sono oggi il punto di faglia che aliena alla sinistra i voti della sua classe sociale di riferimento. Come è stato possibile?

    La sinistra, nonostante il materialismo di Marx, antepone spesso l’ideale al concreto. L’escatologia alla tornata elettorale. La seduzione orientalista

per l’alterità e lo straniero, poi, viene da lontano. Dal terzomondismo, quando, secondo le (sbagliate) profezie dei maestri del sessantottismo, “dai diseredati

della terra” sarebbe venuta la rivoluzione globale. I diseredati, invece, ambiscono a smettere di essere tali e ad avviarsi verso una grigia vita borghese,

come dimostra il voto a favore dei Repubblicani in America di latinos, cubani, messicani e italiani, una volta integrati. I diseredati diventano più realisti

del re e più conservatori degli autoctoni. Una previsione che non è difficile abbozzare anche per quelli che bussano alle nostre porte, provenienti da

società tradizionali i cui valori sono in sintonia con le destre, non con la sinistra postmoderna delle identità liquide.

    Anzi, le identità liquide alle quali la sinistra si è votata producono il rinascimento di identità forti, come l’islamismo delle seconde generazioni europee

dimostra. Non è peregrino ipotizzare, allora, addirittura un asse fra l’islam e il cattolicesimo più conservatori, in futuro, accomunati dall’odio verso

il laicismo della République, a cui la sinistra si dovrebbe richiamare. Nel frattempo, la tradizionale base elettorale della sinistra composta di colletti

blu e ceto medio, abbandonata a favore dei migranti, volge le spalle alla sinistra e si consegna alla destra populista. E in tutta risposta, l’intellighenzia

non sa fare altro che dare degli xenofobi al proletariato, stigmatizzando la “guerra fra poveri” da superare nel nome della rivoluzione globale. Anteponendo,

ancora una volta, l’ideale cosmopolita alla realtà nazionale di un elettorato arrabbiato. Quanto possa essere deleterio - non rappresentare -, ma anteporre

istanze transnazionali e globali, quando l’elettore ti vota per risolvere i problemi in Italia, lo sta imparando la sinistra a sue spese a furia di sconfitte

elettorali.

    La verità è che la guerra fra poveri è fisiologica quando le risorse sono scarse e quelle spostate a favore dei migranti sono sottratte a una classe in caduta libera a causa della globalizzazione. Perché la migrazione ha un saldo economico positivo nella lunga distanza, ma ha dei costi nell’immediato che pagano i colletti blu e il ceto medio. Perché nella lunga distanza il comunismo trionferà pure, ma gli operai saranno tutti morti. Perché le classi agiate

che lodano il multiculturalismo limitano il loro incontro con l’alterità al cibo etnico e alle badanti stranieri, mentre lasciano lo scontro di civiltà

ai quartieri ghetto, dove i migranti si insediano e si innesca la deflazione salariale. Perché le élites che hanno studiato a Oxford e Harvard vivono la competizione globale come un’opportunità, è per la gente normale che essa è una minaccia.

    Che fare? Il grande politologo Peter Mair ha spiegato l’emergere dell’ultradestra votata dal proletariato, l’ex bacino elettorale della sinistra, come la

necessità di riempire un vuoto: la sinistra dei colletti blu è diventata, negli anni, anche coerentemente alle sue promesse di miglioramento delle condizioni

materiali dei suoi elettori, la gauche caviar dell'intellighentia borghese delle professioni sussidiate dallo Stato. Ciò ha comportato l’abbandono di un’agenda

fatta di diritti materialisti - essenzialmente di natura economico e sociale -, a favore di una postmaterialista. I cosiddetti diritti di espressione del

sé, come li ha definiti Ronald Inglehart, da parte di una classe sociale agiata che ha mangiato il pane e ora vuole solo le rose: identità liquide, veganismo,

diritti LGBTQ, multiculturalismo. Il multiculturalismo come ideologia postmateriale ha fatto sì che la sinistra, invece di gestire migrazioni ed integrazione,

li perseguisse come valore, magari proprio perché accecata da quel mito terzomondista per cui lo straniero è un futuro Castro o Sankara.

    La migrazione è invece un’ulteriore liberalizzazione, quella della forza lavoro. Non c’è nulla di sinistra nel mettere stranieri a locali a competere in

un mercato in recessione. Non è di sinistra far fare agli stranieri “i lavori che gli italiani non vogliono fare più”. Non è di sinistra favorire il drenaggio

di capitale umano del Terzo Mondo e che viene a produrre reddito in Europa. Certo, il lavoratore nazionale già è messo in competizione con l’esterno attraverso

le internazionalizzazioni e la globalizzazione. Ma il dato significativo è che l’ostilità dei lavoratori nazionali verso quelli stranieri è proprio una

manifestazione di una più ampia ostilità del ceto medio verso la globalizzazione. Rispetto alla quale la sinistra è passata dalle battaglie no global del

Forum di Porto Alegre ad una sorta di fideistica adesione a priori, limitandosi a vederne i benefici, ma non calcolando chi avrebbe pagato quali costi.

Il proprio elettorato, per il quale la xenofobia è la forma storicamente determinata che assume un’istanza di richiesta di protezione contro gli animal

spirit e la distruzione creatrice prodotta dalle liberalizzazioni.

    In un periodo storico in cui l’austerità ha impedito che le socialdemocrazie potessero indennizzare i perdenti della globalizzazione mentre, anzi, si riducevano

le fragili reti di protezione perché ce lo dice lo spread. In definitiva, non è contro gli stranieri che il ceto medio dovrebbe rivolgere la propria rabbia.

Ma proprio contro quei partiti che hanno favorito gli impatti di queste trasformazioni. Fra questi, le socialdemocrazie, che, per perseguire le buone intenzioni

della globalizzazione, stanno lastricando una strada che conduce verso l’inferno del populismo.

 

(da www.linchiesta.it)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina