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La crisi di maturità dell’euro

di Lucrezia Reichlin

L’introduzione della moneta unica, senza adeguate istituzioni di sostegno, ha trasferito sul mercato dei debiti sovrani le tensioni che c’erano sui cambi

Parto dall’affermazione che il futuro dell’euro sia legato strettamente al futuro dell‘Unione Europea (UE) e, viceversa, il futuro della UE sia legato a quello dell’euro. La ragione è la valenza politica, oltre che economica, della moneta unica. L’unione monetaria non era parte del progetto iniziale della UE. In principio ci si focalizzò su trattati per il libero scambio per porre le basi di un progetto che nasceva con una forte motivazione geo-politica: garantire la pace in un continente che usciva devastato dalla guerra.

L’idea della moneta comune prende piede più tardi, con la prospettiva dell’unificazione della Germania. Con la caduta del Muro di Berlino si riapre in Europa la questione tedesca. La Francia accetta una Germania unita e più potente in cambio della moneta comune. L’obbiettivo — da parte di Mitterand — era quello di «europeizzare la Germania», di neutralizzare la sua forza fornendo un’alternativa al primato del marco tedesco nel sistema monetario europeo. Una moneta comune guidata da una istituzione — la futura Banca centrale europea — in cui tutti i Paesi fossero seduti intorno al tavolo, avrebbe dato più peso alle ragioni della politica economica francese rispetto ad un sistema in cui quest’ultima si doveva adeguare alla politica monetaria tedesca per garantire la parità di cambio.

Dal punto di vista economico l’euro avrebbe dovuto risolvere il problema dell’instabilità del sistema dei cambi fissi o semi-fissi adottati dall’Europa dopo la fine di Bretton Woods, l’accordo che prevedeva la parità con il dollaro delle valute europee e di quest’ultimo con l’oro e che aveva garantito la stabilità monetaria nei primi venti anni del Dopoguerra ma poi entrato in crisi all’inizio degli anni settanta. Quei sistemi, nati per evitare la volatilità dei cambi flessibili, si erano rivelati proni ad attacchi speculativi contro le monete di quei Paesi che mal si adeguavano alla politica monetaria tedesca.

Il problema che è apparso evidente nell’ultima crisi, però, è che la mera introduzione della moneta unica, senza istituzioni adeguate di sostegno, non garantisce la stabilità ma semplicemente tramuta le tensioni sul mercato del cambio del regime precedente in tensioni sul mercato del debito sovrano. Poiché gli Stati non possono più emettere moneta propria, il debito, anche quando è in euro, è di fatto in valuta estera visto che, in casi estremi, non è possibile ricorrere al finanziamento monetario del debito pubblico. Chi fornisce — in quei casi — la liquidità necessaria? Certamente l’impossibilità della monetizzazione del debito è un potente meccanismo di disciplina di bilancio, ma in caso di crisi — quando le difficoltà di rifinanziamento derivano da choc esterni, per esempio — ci rende vulnerabili ad attacchi speculativi. Il mercato, come nel regime precedente di tassi fissi, si chiede chi difenderà il Paese stressato e testa il sistema. Questo innesta un gioco pericoloso che porta all’impennata dei tassi di interesse, il quale a sua volta alimenta aspettative negative e può tramutare una crisi di liquidità passeggera in una più grave, di solvibilità.

La moneta unica avrebbe dovuto dall’inizio dotarsi di strumenti per evitare questa intrinseca instabilità, ma il Trattato di Maastricht — che ne stabilisce le regole fondamentali — non se ne occupa e si concentra su altri problemi, altrettanto importanti, ma diversi.
Il Trattato di Maastricht affronta due problemi. Primo, prevenire l’azzardo morale — cioè il problema che deriva dal fatto che i Paesi dell’Unione — potendo beneficiare di bassi tassi d’interesse — siano naturalmente portati a rilassare la disciplina di bilancio. Secondo, evitare a tutti i costi crisi di insolvenza sovrana poiché in un mercato finanziario integrato, nel caso in cui un Paese va in default, le banche creditrici di tutti i Paesi membri sono colpite, con conseguenze per la stabilità finanziaria dell’Unione.
Per far fronte a questi problemi, Maastricht stabilisce 3 principi: regole fiscali ex-ante per contenere deficit e debito, il principio del «no bail-out» (nessuno Stato dell’Unione può salvarne un altro) e «no monetary financing», cioè la proibizione di salvataggi da parte della banca centrale attraverso la monetizzazione del debito. Queste regole — che sicuramente hanno una loro logica e giustificazione — pongono l’enfasi sulla prevenzione delle crisi, ma non forniscono strumenti per la loro risoluzione o management una volta che queste ultime si siano manifestate.

Questo impianto è stato sufficiente per garantire la stabilità della moneta unica nei primi suoi otto anni di vita, ma la grande crisi del 2008 — il suo vero primo test — ne ha rivelato l’inadeguatezza. Da quella crisi ne siamo usciti e non era ovvio, ma i costi sono stati enormi e le conseguenze non ancora digerite. Combattiamo ancora con l’eredità che ci ha lasciato.

(dal Corriere della Sera - 21 ottobre 2017)

(modifica il 21 ottobre 2017 | 22:03)

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