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Il Pd, la sconfitta referendaria e il nodo irrisolto della vocazione maggioritaria

di Emilia Patta

«Il segretario del Pd è il candidato premier. Per statuto. Punto». Nel giorno in cui il Pd a vocazione maggioritaria “inventato” da Walter Veltroni festeggia i suoi 10 anni di vita, il segretario Matteo Renzi puntualizza che la vocazione maggioritaria è ancora valida. E che dunque sarà lui a tornare a Palazzo Chigi se il Pd dovesse vincere le prossime elezioni. E di rimando lo stesso Veltroni, che ha partecipato alle celebrazioni del decennale al teatro Eliseo di Roma con Renzi e con il premier Paolo Gentiloni, ricorda il suo imprinting: «La vera rivoluzione politica della nascita del Pd era la vocazione maggioritaria, che non era lo splendido isolamento ma la convinzione che esistesse la possibilità di superare i demoni della sinistra e la convinzione di non essere solo minoranza del Paese».

Demoni della sinistra a parte, le concezioni di Veltroni e di Renzi sono naturalmente un po’ diverse tra di loro. Ma quello che colpisce nella celebrazione del decennale – celebrazione alla quale per altro non ha partecipato il padre dell’Ulivo Romano Prodi né hanno partecipato i rappresentanti della minoranza interna del Pd, Andrea Orlando e Gianni Cuperlo – è l’assenza di un demone più recente: quello della sconfitta del Pd al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso, sconfitta che portò alle dimissioni di Renzi da Palazzo Chigi e alla sua sostituzione con Gentiloni.

Perché la vocazione maggioritaria, con qualunque sfumatura la si intenda, è morta quel giorno. Il Pd a vocazione maggioritaria nacque infatti 10 anni fa dando per scontato un quadro di sistema politico maggioritario, con due grandi partiti o raggruppamenti (il Pd e il partito unito del centrodestra che mise insieme in pochi mesi Silvio Berlusconi, il Pdl) che si sfidavano per alternarsi alla guida del governo. Dal 25 febbraio del 2013, quando il Pd di Pier Luigi Bersani si svegliò senza maggioranza al Senato, non è più così: sulla scena politica c’era e resta tuttora saldo un terzo polo politico, quello costituito dal Movimento 5 Stelle e dai suoi numerosi elettori.

L’alternanza tra centrodestra e centrosinistra, possibile dieci anni fa, oggi non è più possibile come ha dimostrato questa sfortunata legislatura con ben tre premier espressi dal Pd (Enrico Letta, Renzi e Gentiloni) costretti a guidare governi di larghissima (con Berlusconi) o di larga intesa (con Alfano e Verdini). L’unico strumento per permettere un ritorno all’antico, ossia all’alternanza classica tra centrodestra e centrosinistra al governo tenendo al margine i “populisti” grillini, era quello del referendum costituzionale, non a caso fortemente voluto da Renzi, che aboliva il bicameralismo perfetto e della correlata legge elettorale Italicum che prevedeva il ballottaggio nazionale tra le prime due liste e quindi un vincitore certo.

Sappiamo come è andata, e continuare a sventolare il vessillo della vocazione maggioritaria da parte del primo e ultimo segretario del Pd non serve a mascherare la realtà. Né ripetere, come fanno il fondatore dell’Ulivo Arturo Parisi e lo stesso Veltroni, che la legge Rosato non va bene perché lascia due terzi di proporzionale e che sarebbe stato meglio il Mattarellum sul quale tutti sanno che non c’erano i numeri in Parlamento, aiuta a chiarire il quadro.

È chiaro che Renzi ha la necessità comunicativa, a ormai poche settimane dalle elezioni, di rimarcare la vocazione maggioritaria del Pd per scongiurare l’accusa delle sinistre di mirare all’inciucio postelettorale con Berlusconi («con i collegi sarà un corpo a corpo contro il centrodestra», ribadiva dal palco dell’Eliseo). Ma, fuor dai riflettori della campagna elettorale, una riflessione seria su che cosa è il Pd post sconfitta referendaria in una sorta di ritorno alla prima repubblica senza tuttavia la forza e il radicamento che i partiti avevano nella prima repubblica prima o poi va fatta. Pena condannarsi tra non molto alla stessa irrilevanza odierna dei partiti socialisti europei, dalla Francia alla Spagna alla Germania.

Non è un caso che di questi temi si comincia a parlare in stanze per così dire laterali e fuori dai riflettori, come è la stanza del capo staff di Paolo Gentiloni, Antonio Funiciello. Veltroniano e poi renziano, ammette anche se a malincuore la centralità della sconfitta referendaria. «La sconfitta di quel tentativo di riforma, insieme al naufragio di una legge elettorale maggioritaria, hanno cambiato radicalmente il quadro politico – è la sua analisi –. Il neo proporzionalismo insito già nelle leggi elettorali corrette dalla Consulta indebolisce profondamente l’intuizione formalistica del Pd». E ancora: «Il Pd ha travestito le sue fragilità, in questi dieci anni, col mito delle primarie e con la vocazione maggioritaria. In un quadro politico neo proporzionale questi due strumenti hanno i mesi contati. La stessa idea di leadership forti perché caratterizzanti, capaci cioè di surrogare i limiti culturali e organizzatici del partito, è messa logicamente a repentaglio. Non aver provveduto, insomma, in questi dieci anni a irrobustire il cervello pensante del partito e la sua corporatura fisica espone oggi il Pd agli stessi pericoli dei cugini europei».

(dal Sole 24 Ore - 14 ottobre 2017)

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