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Commento introduttivo

Alle prossime elezioni politiche, che quasi certamente si terranno nella primavera del prossimo anno, si voterà con un sistema di impianto proporzionale. E' questo un dato certo, a prescindere da come si evolverà in Parlamento la vicenda della nuova Legge Elettorale.
Come già ho avuto modo di scrivere, non sono ottimista sulla capacità delle Camere di metter mano ad un nuovo, serio strumento elettorale. Con ogni probabilità tutto si ridurrà a qualche aggiustamento della normativa vigente, per renderla meno confusa e, sarebbe già un risultato importante, per rendere meno incoerenti i sistemi elettorali dei due rami del Parlamento. Comunque, anche nell'ipotesi più ottimisticha, il contesto di riferimento sarà l'impianto proporzionale.

Ascoltando i leader politici, sembra che non se ne stiano rendendo conto, allorché propongono piattaforme politiche che potevano avere un senso nella logica del maggioritario (delresto le elezioni amministrative lo hanno attestato, se pur con tutte le cautele del caso), ma che non hanno alcuna concretezza in un sistema di impianto proporzionale.
Se è vero, come è vero, che il maggioritario spinge i partiti a presentarsi agli elettori all'interno di coalizioni, il proporzionale ha l'effetto diametralmente opposto: quello cioè della frammentazione, nella consapevolezza che qualche risultato comunque ci sarà, frutto dello spirito identitario e di appartenenza degli elettori.

In questa logica, il Pd e Forza Italia, concepiti in un contesto maggioritario, pagheranno sicuramente pegno; più favoriti appaiono ad esempio i bersaniani, che potranno comunque puntare sullo zoccolo dei "compagni duri e puri", oppure la Lega di Salvini, puntando sulle "idee semplici e passioni elementari" di un segmento di elettori non poi così modesto, e che viene purtroppo alimentato dalla cecità di certe politiche messe in campo in questi anni.

Non ci vuole certo la sfera di cristallo per prevedere che dalle urne verrà fuori un Parlamento frammentato, nel quale sarà arduo riuscire a creare una maggioranza, soprattutto pensando ad una maggioranza per governare e non per vivacchiare.
Per riuscirci occorrerebbe una grandissima lungimiranza, con il timone puntato sui reali interessi del Paese e non sugli specifici incassi immediati in termini di consenso, presunto o reale che sia.
Lungimiranza che è stata patrimonio di una stagione straordinaria della nostra storia recente, qual è stata quella che ha visto protagonista Alcide De Gasperi. Egli, dopo la vittoria della Dc alle elezioni del 1948, vittoria che gli avrebbe consentito di governare anche con un monocolore, scelse la strada della coalizione, per allargare la base del consenso su scelte che si sarebbero rivelate fondamentali per i futuri sviluppi della nostra storia, e per creare un confine netto fra la sua proposta riformista da una parte, e la rivoluzione e la reazione dall'altra.

Una lezione che la politica italiana dovrebbe apprendere, siedendosi con umiltà sui banchi della storia, avendo ben presente la necessità di unire le forze disponibili per un progetto realmente riformista, capace di rimuovere i nodi strutturali in cui si è avviluppata la società italiana. La gestione delle coalizioni richiede sicuramente un lavoro paziente e faticoso; così come è l'attuale contesto, pazienza e fatica non potranno essere scansate.
Ci si potrà riuscire solo ad una condizione: quella di saper guardare oltre gli orizzonti dei giochi politici immediati: De Gasperi diceva che il politico è colui che pensa alle prossime elezioni mentre lo statista è colui che pensa alle prossime generazioni.
Ebbene, speriamo che in questa folla di politici possa spuntare anche qualche statista!

Paolo Razzuoli

La lezione di De Gasperi contro i populisti di oggi: le coalizioni

di Lucio D’Ubaldo

Del tempo di De Gasperi non conserviamo che sparse reliquie, del suo ruolo conosciamo appena l’essenziale, quel che ne fa agli occhi degli storici un campione della libertà e della democrazia, dunque un padre della Patria. Un po’ come Cavour, l’architetto politico del nostro Risorgimento. Ed entrambi, il laico Cavour e il cattolico De Gasperi, non hanno avuto e non hanno continuatori: come potrebbero averne, d’altronde, se le condizioni politiche in cui hanno operato sono tanto distanti e diverse da quelle odierne?

E’ pur vero che il ricordo del leader trentino, scomparso ormai 63 anni fa, induce in ogni caso a riflettere sulla lezione ancora viva del suo concetto di democrazia, avente l’epicentro nel principio di coalizione. Il compianto Roberto Ruffilli, lo studioso delle istituzioni vittima delle Brigate Rosse, aveva messo in evidenza la novità dello “schema degasperiano”, allorché nella vita democratica italiana la coalizione diventa la pietra miliare della dinamica politica. Essa stessa, la coalizione, si fa istituzione; da essa non si prescinde, pena la caduta di legittimità della leadership; con essa si sostanzia e prende forma la proposta di governo.

Vale la pena individuare bene l’origine di tale regola politica, fino ad allora inesistente. Anzitutto l’alleanza doveva avere una sua sacralità perché il liberalismo in versione giolittiana, cedendo alla disorganicità del gioco parlamentare e confidando nell’abilità del capo dell’Esecutivo, aveva finito per cedere (anche per questo) alla spinta accentratrice e autoritaria di Mussolini. Caduto il fascismo, De Gasperi pensava che la competizione con l’antagonista più forte e insidioso, costituito dal Partito comunista, richiedesse la formazione non già di un generico e indistinto blocco moderato, recante semplicemente l’imprimatur della sua connotazione anticomunista, ma di un’alleanza coerente e stabile di forze democratiche, in grado con la sua autorevolezza di guidare il paese fuori dalla lacerante dialettica tra rivoluzione e reazione.

Questa idea di coalizione non impediva di pensare la Democrazia cristiana, che De Gasperi ancorava fortemente alla tradizione del cattolicesimo popolare e democratico, come fulcro del sistema politico. Come è noto, le elezioni del 18 aprile 1948 ebbero un impatto straordinario sui destini dell’Italia, con De Gasperi trionfatore nell’assegnare al suo partito il ruolo di asse portante del nuovo ordinamento repubblicano e della politica di ricostruzione nazionale. Il passaggio dall’Italia contadina all’Italia industriale fu rapido, massiccio, finanche travolgente.

Non fu un caso. Un ministero di soli democristiani, possibile in base ai numeri parlamentari e gradito alla sinistra interna di rito dossettiano, avrebbe reso tutto molto più complicato. Non passò, a dispetto dei sostenitori ante litteram del partito solo al comando, la suggestione del governo monocolore. De Gasperi ebbe il merito di tenere insieme, con una impareggiabile capacità di sintesi, le forze disponibili a comporre una maggioranza che nelle circostanze date assumeva un carattere riformatore e progressista, essendo chiusa ad ogni contaminazione di tipo monarchico e neofascista. Il motore di questa nuova alleanza era la Dc come “partito di centro che guarda a sinistra”, secondo la celebre definizione degasperians. Un partito esso stesso plurale, per una coalizione naturalmente plurale, destinata ad abbattere gli “storici steccati” tra guelfi e ghibellini. Il problema consisteva nella concreta armonizzazione di libertà e socialità, non molto diversamente da quanto si prospetta, criticamente, ai nostri giorni. Per questo il quadripartito degasperiano (democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali) possedeva un orizzonte strategico e doveva rappresentare, in fondo, “lo stadio preparatorio di una nuova formazione politica” (Del Noce).

Orbene, come possiamo in questa luce cogliere oggi la vitalità o l’attualità dell’esperienza di De Gasperi? Non si tratta di rifare, giacché sarebbe vanamente dispendioso e quindi inconcludente, l’operazione che lo statista democristiano compì negli anni della Guerra fredda; si tratta piuttosto di affrontare il medesimo problema, quello della stretta cooperazione dei diversi riformismi, che fu alla base della costruzione della sua alleanza democratica. E oggi, dopo la caduta del comunismo e la fine della contrapposizione ideologica tra individualismo e collettivismo, una nuova alleanza democratica emerge come vera necessità di un’azione di contrasto verso gli “opposti estremismi” rappresentati da populisti e sovranisti.

Sul Partito democratico, imprigionato nel pragmatismo di una sinistra opacizzata, aliena a riprendere il filo della concreta narrazione del riformismo italiano, ivi incluso il modello degasperiano, ricade eminentemente il peso di una seria e approfondita revisione ideale. Viene da dire, onestamente, che l’idea di un soggetto riformista emancipato dal passato, così da essere certamente emancipato dalle ideologie del Novecento, non ha fornito esiti positivi. Pare banale, infatti, derubricare a questione di liti e antipatie personali l’instabilità del centrosinistra, quando semmai è il substrato profondo, ovvero l’humus filosofico del riformismo democratico, a mostrare un deficit di consistenza culturale nella sua attuale conformazione, tanto da scontare al proprio interno un tasso elevato di conflittualità.

Invece d’inseguire un’astratta novità, fuori da ogni tradizione di pensiero, come immaginato dal gruppo ristretto dei fondatori del Pd, estromessi perlopiù dall’odierna linea di comando del Nazareno, servirebbe quanto mai attingere all’insegnamento di De Gasperi. Il messaggio, con Renzi o contro Renzi, avanza lungo questa direzione: né integralismo, né trasformismo, ma conquista di una dimensione politica più limpida e feconda, per il bene del Paese.

Una nuova sintesi riformista può nascere dal dialogo e la collaborazione delle due grandi culture riformatrici, entrambe a vocazione maggioritaria e capaci di sopravvivere, con le loro peculiarità, al vuoto ideale e politico determinato dalla scomparsa del mito rivoluzionario di stampo marx-leninista: quella liberal-socialista e quella democratico-popolare d’ispirazione cristiana. Non averne contezza, causa il prêt à porter della politica a misura di leader, fa male alla democrazia nel suo complesso. Insomma, non la pretesa d’inventare ogni giorno una posizione di puro intuito, senza debiti con la storia, perciò disincarnata e nondimeno inquieta nel suo vitalismo di potere; ma l’impegno a strutturare un nuovo progetto per l’Italia; un progetto forte come la Ricostruzione del secondo dopoguerra, che tragga dallo schema degasperiano l’elemento tuttora valido ai fini dell’organizzazione di una maggioranza di governo dotata di programmi e finalità, e quindi, per analogia, di una riconoscibile forma di sacralità politico-istituzionale.

Questa pertanto è la scommessa. Alla logica dei blocchi contrapposti, inaugurata frettolosamente nel 1994 come estenuazione e alterazione del “pluralismo polarizzato” (Sartori) della cosiddetta Prima Repubblica, è auspicabile che subentri un’azione convergente e unificante – con il taglio delle ali – a difesa della democrazia parlamentare, del profilo europeista dell’Italia, della sua prospettiva di rinascita (sia economica che civile) dopo la crisi scatenata dieci anni fa dalla bolla finanziaria internazionale. E se le vecchie aggregazioni non hanno funzionato, inutile riproporle a forza. Nel 2018, alla scadenza elettorale, gli italiani avrebbero tutto da guadagnare da una battaglia in stile “18 aprile”, con schieramenti tra loro alternativi rispetto alle grandi questioni del paese, ma sostanzialmente uniti nella definizione di una linea di confine verso le componenti più radicali, portatrici di una pericolosa miscela di antiparlamentarismo, antieuropeismo e antiglobalizzazione.

(da Il Foglio)

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