di Adriana Cerretelli
Non è nuova in Europa la moda dei mini-vertici, al contrario: da sempre emerge a fasi alterne per sparire come un fiume carsico e riaffiorare alla bisogna. Se oggi torna a impazzare in un’Unione difficile e in profonda crisi interna, è perché ad animarla provvede soprattutto la Francia di Emmanuel Macron, il presidente assetato di ubiqui protagonismi.
L’interrogativo però è un altro: più o meno allargati, i direttorii sono una dirompente arma impropria o il forcipe funzionale alla nascita di un’Europa
migliore, più solida e credibile, meno confusa e cacofonica dell’attuale?
A prima vista la moltiplicazione dei mini-summit, formali o informali, tra grandi o piccoli Paesi, dell'Est, del Nord o del Sud può apparire il modo giusto
di superare strozzature e sfoltire ostacoli insiti nell’Unione dei grandi numeri (27-28 membri), la via per rendere più semplice, rapida ed efficiente
la governance di un’Europa altrimenti strangolata dall’abnorme lunghezza delle procedure decisionali: se va bene, 2 anni in media per varare una legge,
sempre che di mezzo non ci sia il voto all’unanimità.
Di fatto, quando i Trattati Ue prevedono la regola “un Paese, un voto”, sia pure corretto dal peso demografico di ciascuno, la scorciatoia suscita immediate
diffidenze e divisioni insieme al sospetto che le contrabbandate semplificazioni siano in realtà un veicolo per consolidare grandi e piccole egemonie,
con il corollario inevitabile di sudditanze o emarginazioni per chi non fa parte del grande gioco.
In altre parole, rischia di provocare l’effetto opposto a quello che in teoria si propone: forse meno eterogeneità politico-culturale ma non necessariamente
più coesione e omogeneità nell’Unione residua, nata da una selezione darwiniana dai criteri tutti da stabilire, non si sa secondo quali parametri. Del
resto, proprio questi timori, diffusi non solo a Est, hanno indotto nel marzo scorso i leader Ue a cancellare dalla dichiarazione di Roma, firmata nel
60° anniversario dei Trattati Ue, ogni riferimento diretto all’Europa a più velocità, allora promosso soprattutto dalla Francia di François Hollande e
dalla Germania di Angela Merkel.
Dettaglio evidentemente irrilevante per Macron che, tra l’altro, proprio ieri è tornato alla carica sull’Europa multi-speed, annunciando che presenterà
proposte concrete subito dopo le elezioni tedesche del 24 settembre.
Il volontarismo europeo del nuovo inquilino dell’Eliseo è debordante e basato sulla convinzione, condivisa da molti, che dopo Brexit (ammesso che alla fine
accada davvero), l’Europa debba rimpicciolirsi e razionalizzarsi per poter sopravvivere e nuotare indenne nel mare degli squali globali.
C’è del vero. Il dubbio è se possa essere la Francia di Macron dagli istinti sovranisti e dal protezionismo troppo facile in campo sociale (scontro con
i Paesi dell’Est sulla libera circolazione dei lavoratori distaccati), industriale (accordo Fincantieri-Stx ritrattato) e migratorio (chiusura delle frontiere)
sia oggi il Paese adatto a impartire ad altri lezioni di correttezza europeista, a convincere i riluttanti reinventando e proponendo un futuro collettivo
capace di compattare una coalizione di volonterosi.
Dal mini-vertice sulla Libia a quello recentissimo per l’outsourcing in Africa delle pratiche sul diritto di asilo, come prima l’assolo con Donald Trump
sugli Champs Elysées, Macron ha lanciato iniziative che appaiono più destinate alla auto-incensazione della propria presidenza che mirate a operazioni
capaci di risolvere concretamente e in tempi utili problemi seri come i flussi migratori inarrestati o i dissidi euro-americani. Perfino l’Europa e il
suo futuro appaiono ostaggio della sua nostalgia di potenza e Grandeur nazionali, della sua ansia di recupero di un impossibile rapporto paritetico con
la Germania riunificata.
Non a caso, anche quando compare al suo fianco, il silenzio o la compassata cautela della Merkel dicono più di tante parole. Certo, a frenarla sono le imminenti
elezioni di fine settembre ma anche le perplessità verso l’improntitudine del giovane presidente, forse ancora inesperto ma soprattutto privo delle carte
in regola a sostegno della sua esondanti ambizioni. Dunque un pericolo per l’unità europea, in qualsiasi formato la si voglia concepire, e per la tenuta
del mercato unico fondamentale per gli interessi economici tedeschi.
Nella piccola Europa dei Sei o dei Dodici, Francia e Germania riassumevano insieme l’interesse collettivo e per questo erano i mediatori naturali tra i
partner Ue. Nell’Unione troppo plurale di oggi, che si muovano da soli o in coppia, rischiano di essere a torto o a ragione percepiti come dei dominatori
ingiustificabili, scomodi e inaccettabili.
Merkel lo sa e si muove con grande prudenza, attenta a non urtare inutilmente le sensibilità altrui. Macron per ora sembra risucchiato da sé stesso, dalla
sua Francia e da un’Europa sfacciatamente al servizio delle sue esigenze, interne e non. Difficile in questo quadro una solida ripresa dell’intesa franco-tedesca
in crisi da anni, improbabile la costruzione di direttorii accettabili e duraturi, complicato approdare a una nuova struttura e a un nuovo governo dell’Europa
in grado di assicurarle affidabilità e protagonismo finora mancati.
Se la Francia non cambia e non rimette al più presto i piedi per terra, il sogno del suo presidente di rilanciare l’Europa potrebbe finire per farle molto più male che bene. Soltanto se la ragione di Stato di tutti i volonterosi riuscirà questa volta a transustanziarsi davvero in quella europea, una nuova Unione potrà rimettersi in marcia. In caso contrario, solo passi a ritroso.
(dal Sole 24 Ore - 31 agosto 2017)