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Legge elettorale, una gara tra chi urla di più

di Angelo Panebianco

Col proporzionale ognuno gioca per sé e si premia l’estremismo

La comunicazione politica funziona per automatismi: si dice ciò che ci si aspetta che i propri elettori vogliano sentire anche se si tratta di frasi senza senso o riferite a oggetti non più esistenti. Ecco due esempi: «Un centrodestra unito vincerebbe» (Berlusconi e i suoi). «Il leader del partito che risulterà più forte alle elezioni sarà il candidato-premier» (Renzi). Peccato che il «centrodestra» non esista più e che, difficilmente, nelle vigenti condizioni il leader del partito che avrà più voti diventerà primo ministro. Spesso, gli stati maggiori si preparano per la prossima guerra immaginando che sia simile alla precedente. Allo stesso modo i politici usano gli slogan di una stagione passata quando ormai il contesto è radicalmente mutato. Nel 1994 si tennero le prime elezioni con il sistema maggioritario. Anziché adattarsi immediatamente alle nuove condizioni i politici iniziarono quella campagna elettorale facendo riferimento agli schemi di gioco, agli stilemi e ai tic della passata epoca, quando era in vigore la proporzionale. Solo quando «scese in campo» Berlusconi, il primo autentico leader dell’età maggioritaria, il gioco cambiò bruscamente. Accade oggi di nuovo: ci avviamo (dopo un ventennio) alle prime elezioni con la legge proporzionale e molti politici parlano «come se» fosse ancora in vigore il sistema maggioritario. Se non sapessimo che è una finzione dovremmo accusare di incoerenza e di illogicità Berlusconi e i suoi quando evocano il «centrodestra».Il centrodestra esiste in regime di maggioritario e scompare in regime di proporzionale (da noi, ormai resiste sul piano locale e regionale solo perché lì è ancora in vigore una variante del maggioritario). Non si può volere la proporzionale, come vogliono Berlusconi e i suoi, e poi evocare una «creatura» che con la proporzionale non c’entra nulla.

Idem per quanto riguarda la possibilità che diventi premier il leader del partito elettoralmente più forte. Sono cose da maggioritario, non da proporzionale. In età proporzionale si formano governi di coalizione dopo le elezioni e a nessuno dei partner conviene che il primo ministro sia anche il capo del partito più grande: meglio, per loro, che la presidenza del Consiglio vada a un esponente politicamente meno forte, con meno truppe al seguito. Dal loro punto di vista, poniamo, un Gentiloni sarebbe sempre molto più accettabile di un Renzi.

Se si passa dal maggioritario al proporzionale (e viceversa) significa davvero che tutto cambia. La prima cosa che cambia è questa: se vige il sistema maggioritario si vota «contro», se vige il sistema proporzionale si vota «per». Nel primo caso, voto per A non necessariamente perché mi piace A ma perché votare A è il modo migliore per impedire che vinca B (da me detestato). Nel secondo caso, invece, scelgo, nell’ampio menù che mi viene presentato, la pietanza (il partito) che più si adatta ai miei gusti. È vero che, in circostanze eccezionali — come quelle propiziate in Italia dalla guerra fredda — si può votare «contro» anche in regime di proporzionale (come ci ricorda il celebre invito di Indro Montanelli: «Tappatevi il naso e votate Dc»). Ma non è la regola.
Che si sia entrati in un nuovo mondo lo hanno capito per primi gli scissionisti del Pd, D’Alema, Bersani e soci: se vige la proporzionale ritorna il voto identitario (che è un tipico voto «per») e ci sarà pure nel Paese una quantità di nostalgici sufficiente per assicurare una rappresentanza parlamentare al loro partitino. Allo stesso modo, sul versante opposto, sembra che Salvini abbia compreso meglio dei berlusconiani come ci si deve muovere (e comunicare) in epoca di proporzionale.

Certamente, la retorica politica ha le sue esigenze. E la democrazia ne vive. Prepariamoci a una campagna elettorale in cui verranno dette tante parole destinate a finire nel dimenticatoio appena si chiuderanno le urne. Si ipotizzeranno alleanze nonché fiere opposizioni alle presunte alleanze altrui. Ma solo quando si conosceranno i risultati elettorali, e la consistenza parlamentare dei vari partiti, cominceranno le manovre per formare un qualche governo di coalizione. Fra quelle manovre e le cose promesse in campagna elettorale non ci sarà una stretta relazione. Così vanno le cose in regime di proporzionale dove ciascuno gioca per sé e le alleanze si fanno dopo il voto.

Fin qui i fatti. Dopo di che, cominciano le valutazioni. Non siamo in pochi a tremare per gli effetti che può avere il ritorno della proporzionale. Essa ha garantito in Italia la democrazia (pur al prezzo di una continua instabilità governativa) quando esistevano partiti forti, radicati nel Paese. Ora quei partiti non ci sono più (né mai più ci saranno): ci attende un futuro di instabilità e forse anche di rischi per la democrazia.

Per giunta, il sistema proporzionale, quando la maggior parte dei partiti presenti è priva di un forte insediamento sociale, finisce facilmente per premiare l’estremismo. Per due ragioni. La prima è quella del tertius gaudens: i più moderati sono impegnati a combattersi fra loro per portarsi via i voti e ciò dà un vantaggio al partito estremista che li combatte tutti. La seconda ragione ha a che fare con le regole della comunicazione: tante voci, tante facce, tanti messaggi in conflitto confondono l’elettore e lo annoiano. In tanto bailamme, le voci degli estremisti risaltano. Essi urlano più forte di tutti e catturano l’attenzione dei presenti vendendo l’elisir di lunga vita: soluzioni semplicissime per problemi complicatissimi.

(dal Corriere della Sera - 6 agosto 2017)

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