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La politica non sa reagire all’antiparlamentarismo

di Angelo Panebianco

Una democrazia come la nostra, dotata di deboli capacità di decisione, suscita periodicamente una diffusa avversione e la tentazione di «rovesciare il tavolo»

Il dibattito della Camera sui vitalizi dei parlamentari si è risolto, come era prevedibile, in uno spot contro il Parlamento. E poiché il Parlamento è parte integrante della democrazia rappresentativa (che è, a sua volta, l’unica possibile democrazia) possiamo dire che abbiamo assistito a «prove tecniche di tirannia». Arriva un momento in cui le classi politiche parlamentari finiscono per accelerare la propria disfatta sposando, nel disperato tentativo di salvarsi, la fraseologia e i simboli delle forze antiparlamentari. L’antiparlamentarismo è oggi molto forte nel Paese come lo è stato in altre fasi della nostra storia, per esempio alla vigilia della marcia su Roma. Anche allora, detto per inciso, c’erano diversi aspiranti Appelius (il più celebre giornalista militante del ventennio), decisi a cavalcare l’ondata antiparlamentare. Non c’è da scandalizzarsi. Gli esseri umani sono fatti così. Perché l’antiparlamentarismo è così forte nel Paese? Per molte ragioni. Gioca, sullo sfondo, una tradizione culturale in cui sono sempre state presenti tendenze anarcoidi e umori anti-istituzionali (ciò spiega, ad esempio, il lunghissimo ’68 italiano). Gioca un assetto istituzionale nel quale prevalgono i poteri di veto e la paralisi decisionale. Una democrazia come la nostra, dotata di deboli capacità di decisione, suscita periodicamente una diffusa avversione e una generalizzata tentazione di «rovesciare il tavolo».

Al momento, l’antiparlamentarismo sembra alimentato, oltre che dai suddetti fattori, anche da altre due cause: la potenza del circo mediatico-giudiziario e il fallimento della scuola, il fatto che ha superato ormai la massa critica il numero di persone uscite da scuole superiori e tuttavia semi-analfabete, passate attraverso un sistema di istruzione a maglie troppo larghe, poco selettivo, spesso restio, in nome di un malinteso principio di uguaglianza, a praticare il rigore. C’è una fetta molto ampia di italiani che è convinta che l’Italia sia il Paese più corrotto del mondo. A giudicare dalle sentenze passate in giudicato ciò non sembra vero.

Ma è invece vero che in Italia, almeno dai primi anni Novanta, dai tempi di Mani Pulite, esiste il circo mediatico-giudiziario forse più potente del mondo ed esso fa di tutto perché gli italiani pensino quel che pensano sulla corruzione. Una volta che scrissi ciò (ossia che le sentenze danno torto a chi vede corruzione ovunque) ricevetti la vibrante critica di un lettore, uno di quelli che io catalogo come AG, azzeccagarbugli-giustizialista (esperto in cavilli legali e di sentimenti liberticidi), il quale dottamente mi spiegò che i corrotti vengono assolti perché favoriti da una serie di norme (a cominciare da quelle sui tempi di prescrizione).

In sostanza, secondo l’AG in questione, mentre le accuse di corruzione formulate dai pubblici ministeri sono Vangelo e la presunzione di non colpevolezza una stupidaggine, i corrotti se la cavano sempre perché le leggi (fatte da altri corrotti) li proteggono. Costui non aveva neppure l’attenuante di essere un ignorante: ma quando arriverà il momento in cui nei corsi di laurea in Giurisprudenza ci si dedicherà soprattutto ad insegnare il diritto come tecnica di libertà? La tradizionale debolezza della cultura liberale in Italia si riverbera anche sul modo in cui viene trasmesso e interpretato da molti, troppi, il sapere giurisprudenziale.

La classe politica parlamentare, per quanto debole, bastonata e spaurita, dovrebbe decidersi a contrattaccare. La sua lunga inerzia, la sua comprovata incapacità di adottare provvedimenti in grado di fermare questa furia distruttrice, la mette nella condizione di subire, prima o poi, una sconfitta definitiva. E di farla subire alla democrazia.

La seconda causa dell’antiparlamentarismo montante ha a che fare con il cattivo funzionamento dei processi educativi. Troppi ignoranti credono di avere diritto di parlare su cose di cui nulla sanno e capiscono solo perché docenti privi di etica professionale hanno permesso che essi completassero senza troppi intoppi, il loro iter scolastico, post-scuola dell’obbligo. Ha ragione David Allegranti (Il Foglio, 29 luglio): c’è un legame stretto fra il fanatismo antiscientifico che sta dietro alla campagna antivaccini e l’antiparlamentarismo. In entrambi i casi ci si rivolta contro il principio di autorità. Ma il legame è ancora più profondo.

Nella democrazia rappresentativa (che è poi la democrazia liberale) il demos, il popolo, non può tutto . La sua volontà è soggetta a vincoli e limiti. La scienza, nel mondo moderno, è uno di questi limiti. Spetta al circuito rappresentativo (governo-Parlamento) impedire che gli umori popolari generino provvedimenti in conflitto con quanto sostiene, sui vari problemi in gioco, la comunità scientifica. La ragione è che, altrimenti, quei provvedimenti avrebbero effetti boomerang, danneggerebbero il Paese. Ma l’antiparlamentarismo non vuole limiti alla volontà del popolo. La volontà popolare deve potere tutto, è un Dio onnipotente e come tale va trattata e riverita. Neanche la scienza può mettersi di mezzo. Il fanatismo antiscientifico — figlio dei fallimenti dei processi educativi — e l’antiparlamentarismo sono fratelli siamesi.

(dal Corriere della Sera)

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