logo Fucinaidee

L’Occidente in lotta con l’Isis e il futuro dei «terrorismi» nel mondo arabo diviso
Perché in Medio Oriente non nasce un fronte compatto

di Sergio Romano

La lotta contro il terrorismo è la parola d’ordine di molti governi, dall’Atlantico all’Oceano Indiano passando per il Mediterraneo e per l’Africa. Ma il significato di «terrorismo» non è sempre necessariamente lo stesso. Se un governo lo denuncia riferendosi all’Isis, non ci sono dubbi. L’Isis (noto anche come Isil o Daesh) è uno Stato che ha istituzioni e strutture con cui da qualche anno controlla brutalmente un territorio a cavallo fra Iraq e Siria; ma contemporaneamente ricorre sul piano internazionale a metodi terroristici. Dispone di una armata delle ombre composta da volontari infiltrati che non esitano a sacrificare la propria vita per seminare terrore tra le popolazioni civili del Paese in cui vivono. Rivendica generalmente la paternità di ogni attentato e ha capi di cui conosciamo il nome e il curriculum. Ha una strategia riconoscibile ed è tanto più attivo come entità terroristica quanto più viene sconfitto sul terreno. Combatterlo non è facile, ma noi sappiamo che la sua efficienza dipende in larga parte da strutture e da catene di comando che possono essere distrutte.

L’ala terroristica

È probabile che l’ala terroristica dell’Isis possa sopravvivere alla scomparsa dello Stato ma si tratterà, sperabilmente, di un problema generazionale, destinato a divenire meno minaccioso nell’arco di un paio di decenni. Così è accaduto in passato a quei movimenti nazionali che si servivano del terrorismo per rivendicare una patria perduta o auspicata e vincevano la partita o abbandonavano la lotta: il Fronte di liberazione nazionale (FLN) in Algeria, l’Irish Republican Army nell’Irlanda del Nord, l’Irgun zvai Leumi in Israele e altri irredentismi. I risultati furono alquanto diversi. Il FLN vinse la partita grazie al generale De Gaulle, ansioso di chiudere il capitolo algerino per fare una grande politica estera su scala mondiale. L’Ira cedette alla stanchezza, probabilmente, quando capì di avere perduto l’appoggio della grande diaspora irlandese negli Stati Uniti. L’Irgun fu messo in riga dalla fermezza e dalla saggezza di Ben Gurion. Anche il PKK (il partito curdo dei lavoratori), potrebbe rinunciare alle armi, se il problema curdo trovasse una soluzione internazionale, per essere soltanto una forza politica.

Il problema

Il problema diventa molto più complicato se il terrorismo si propone irraggiungibili obiettivi religiosi: la redenzione dell’umanità, la conversione o la punizione dell’infedele, la eliminazione dell’apostata, la ricerca del martirio, l’arrivo del Messia. Ma l’Europa conosce le guerre di religione per averne fatto una drammatica esperienza nei 130 anni che vanno dalla Riforma di Lutero al Trattato di Westfalia; e sa che ogni dissidio religioso può essere usato per obiettivi politici, che la frontiera tra politica e religione è spesso facilmente scavalcabile in un senso o nell’altro. È questo, ancora più dello scontro di religioni, che rende la grande crisi medio-orientale un nodo così imbrogliato. Le grandi potenze hanno molte responsabilità. La guerra degli Stati Uniti contro l’Iraq di Saddam Hussein, nel 2003, ha avuto effetti che Washington non aveva previsto: la vittoria della maggioranza sciita contro la minoranza sunnita e la crescente influenza dell’Iran sul Paese. L’involontario successo iraniano ha allertato tutti i sunniti della regione e ha provocato in Iraq una guerra civile che non è ancora terminata.

L’islam diviso

Nelle grandi rivolte arabe del 2011, la Turchia di Erdogan ha intravisto la possibilità di creare una grande area sunnita di cui sarebbe stata la guida, come all’epoca dell’Impero Ottomano, e ha sostenuto per qualche anno tutti i jihadismi sunniti (fra cui l’Isis e le componenti più radicali della Fratellanza Musulmana) che combattevano in Siria contro il regime laico di Bashar Al Assad. L’Arabia Saudita è sunnita, ma considera la Fratellanza Musulmana una minaccia all’Islam wahabita, di cui è la maggiore espressione territoriale, e la teme anche in piccoli Paesi come il Qatar. Dall’inizio di queste crisi non vi è stato un terrorismo sunnita o sciita che non abbia goduto del sostegno o della complicità di qualche Paese della regione. In questo imbrogliato intreccio di interessi che cercano, per meglio combattersi, una nobilitazione religiosa, tutti i combattenti hanno sul loro scudo lo stesso motto: il nemico dei miei nemici, quale che sia la sua fede, è mio amico. È questa la ragione per cui la creazione di un coerente fronte anti-terrorista, in Medio Oriente, è stata sinora impossibile.

(dal Corriere della Sera - 24 giugno 2017) (modifica il 24 giugno 2017 | 23:49)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina