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Se le urne assicurano l’ingovernabilità

di Roberto D'Alimonte

In un quadro politico che, dopo la scissione del Pd, diventa di giorno in giorno sempre più confuso una sola cosa è certa: le prossime elezioni ci faranno fare un salto indietro nel tempo.
Dopo il voto si aprirà una fase di trattative estenuanti tra i partiti, il cui esito non è affatto scontato. È un copione che in parte abbiamo già visto dopo le elezioni politiche del 2013. Allora la non-vittoria del Pd al Senato e l’impossibilità di formare un governo Pd-Scelta civica portò all’accordo iniziale con Forza Italia e successivamente a quello con il Ncd. Dopo le prossime elezioni sarà peggio. La scissione in atto dentro il Pd rende ancora più incerta la prospettiva che una coalizione Pd-Forza Italia-Ncd possa arrivare alla maggioranza dei seggi. Soprattutto alla Camera. E a quel punto che si fa? Se si votasse a settembre ci sarà da approvare la legge di bilancio in tempi stretti, con i mercati in fibrillazione davanti allo scenario di un sistema partitico polarizzato e paralizzato. Il presidente Sergio Mattarella è persona di grande esperienza, ma cosa potrà fare in una situazione in cui per certe soluzioni non ci saranno i numeri e per altre ci saranno i veti?

È realistica una coalizione che vada da Fi a pezzi della sinistra passando per il Pd? Ma c’è di più. Dopo la scissione del Pd è molto probabile che il primo partito nel paese sia il M5s, come è già successo alla Camera nel 2013. Allora c’erano le coalizioni che neutralizzarono la portata politica di quell’evento. Non sarà così questa volta. E non c’è dubbio che questo elemento peserà. Non si sa ancora come, visto che dipenderà anche dai seggi che prenderanno la Lega Nord e Fratelli d’Italia, ma condizionerà in ogni caso il quadro politico. Non sarà semplice giustificare davanti all’opinione pubblica l’esclusione dal governo del partito più votato. E questo indipendentemente dalla tendenza all’isolazionismo del movimento di Grillo.

Insomma, sarà molto difficile fare un governo dopo le prossime elezioni. E sarà in ogni caso difficile farlo in tempi brevi. Chi pensa che tra oggi e la data del voto le prospettive possano cambiare grazie a una riforma elettorale di stampo maggioritario si illude. Non ci sono le condizioni in parlamento.
Solo se il M5s cambiasse idea sui collegi uninominali si riaprirebbe la partita. Ma è un colpo di scena del tutto irrealistico. Né servirà l’armonizzazione dei due sistemi elettorali di Camera e Senato a migliorare le cose. Siamo dentro il proporzionale e lì resteremo, anche con la armonizzazione.

Le prossime elezioni saranno la sagra della rappresentatività e il funerale della governabilità. E allora c’è da riflettere seriamente se non valga la pena, nell’interesse del paese, che sia questo governo a far approvare una legge di bilancio il cui valore potrebbe essere di venti miliardi e passa. Ci rendiamo perfettamente conto che nemmeno questa è una strada facile. Ancora meno oggi con la diaspora dei democratici. È dura per gli attuali sostenitori del governo Gentiloni assumersi la responsabilità di decisioni impopolari prima di affrontare il giudizio degli elettori. Il Pd in particolare potrebbe perdere qualche punto percentuale in termini di voti, ma in tempi di proporzionale non farebbe una gran differenza. Per il paese però potrebbe essere il male minore. Ma se proprio non si volesse votare l’anno prossimo, allora il voto a giugno e non a settembre sarebbe una soluzione preferibile. Ci sarebbe più tempo per mettere insieme un governo in grado di prendere decisioni difficili. Forse.

(dal Sole 24 Ore - 24 febbraio 2017)

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