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La cattiva politica che insegue il populismo

di Giorgio Santilli

È sorprendente come la politica faccia, a volte, il contrario di quello che è chiamata a fare la buona politica: dovrebbe dare certezze, rafforzare una direzione di marcia lunga, rispondere alle turbolenze delle congiunture rassicurando i cittadini con messaggi univoci e invece - pur di dividersi fra guelfi e ghibellini in vista di un congresso, pur di inseguire le spinte centrifughe delle forze populiste con l’illusione di contrastarle così sul loro terreno, pur di rendere difficile il cammino a un ministro che porta l’onere di un negoziato inevitabile con l’Europa - ridiscute in quattro e quattr’otto assunti delle politiche economiche condivisi da anni. Come quello delle privatizzazioni.

Condivisi Def dopo Def, manovra dopo manovra, con approvazioni in Consigli dei ministri e votazioni in Parlamento senza battere ciglio. E li ridiscute non con un’analisi profonda che spieghi pubblicamente la svolta ideologica, ma lo fa con svolte repentine, giusto per andare dietro alla stagione che si è aperta tutta nervi e muscoli.

Sia chiaro. Si deve sempre discutere di quali siano le modalità migliori per far arretrare lo Stato padrone nell’economia di mercato e anche degli errori fatti nelle privatizzazioni passate, per esempio in termini di debolezza regolatoria, di scarsa attenzione alla qualità dei servizi, di impegni troppo blandi sugli investimenti privati, di regole concessorie confuse, di difesa degli utenti più deboli (anche in termine di servizio universale).

In tutto questo poco c’entra la quotazione della seconda tranche delle Poste (che sottosta a un assetto regolatorio robusto e comunque migliorabile) e semmai c’entrano di più le promesse fatte (e non mantenute) sulla riduzione delle ottomila partecipate e su servizi pubblici locali meno protetti da vecchi monopoli ormai fuori del tempo nell’era delle app.

Di tutto questo si può e si deve discutere, a patto che il partito delle lenzuolate liberalizzatorie, della dichiarata volontà ultradecennale di modernizzare i servizi in Italia e di attrarre nuovi capitali privati in settori strategici, del risanamento dei conti e della necessaria riduzione del debito pubblico - da non lasciare ai nostri figli e nipoti - non diventi improvvisamente il partito del “pubblico è bello”, magari con il miraggio di aumentare l’occupazione per questa via. Parole in libertà ascoltate in questi giorni di brutto dibattito precongressuale. Più che un miraggio sarebbe un incubo in stile anni ’70 che condannerebbe al declino chi lo propone.

(da Il Sole 24 Ore - 17 febbraio 2017)

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