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Ribelli d'Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate Rosse

Ultimo lavoro di Paolo Buchignani

"Ribelli d'Italia. - Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate rosse" E' questo il titolo dell'ultimo corposo ed interessantissimo volume dato alle stampe, per i tipi di Marsilio, dal celebre storico lucchese Paolo Buchignani.

Il testo sarà presentato mercoledì 22 febbraio 2017 alle ore 17:00, nei Saloni Monumentali della Biblioteca Statale di Lucca, via Santa Maria Corte Orlandini n.12, Lucca.
Alla presenza dell'autore, presenterà il volume lo storico Giuseppe Parlato, Ordinario di Storia Contemporanea presso UNINT di Roma, ed uno dei massimi esperti di storia italiana del Novecento.

Paolo Buchignani è nato a Lucca nel 1953; storico del Novecento italiano, ha pubblicato numerosi saggi sulle avanguardie e sul fascismo, tra cui:
Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio;
Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica. 1943-53;
La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943.
Collabora a «Nuova Storia Contemporanea» e a “Nova Historica”. È docente di Storia contemporanea all’Università per Stranieri «Dante Alighieri» di Reggio Calabria.

Il volume è stato recensito sui più importanti organi di informazione, sia cartacei che radio-televisivi.
Per i lettori di fucinaidee propongo la recensione di Giuseppe Bedeschi, già Ordinario presso La Sapienza di Roma, uno dei più apprezzati studiosi del pensiero liberale italiano.

Paolo Razzuoli

L'IDEA DELLA RIVOLUZIONE COME PALINGENESI.

di Giuseppe Bedeschi

L'Italia si riformerà solo sbarazzandosi del suo retaggio politico e culturale

Il riformismo sociale e politico ha sempre condotto una vita grama nel nostro paese.
L'idea della rivoluzione come palingenesi, come costruzione di una società completamente "altra", lo ha quasi sempre sopraffatto.
La nazione italiana, a partire dalla sua unità (1861) è stata largamente dominata da culture politiche di tipo giacobino, con esiti che si sono manifestati, si può dire, fino ai nostri giorni.
Non hanno brillato per riformismo, infatti, i governi di sinistra inaugurati nel 1996 con la vittoria dell'Ulivo nelle elezioni politiche; e i governi presieduti da Berlusconi (dal 2001 in poi) non hanno mantenuto a loro volta la promessa di riforme liberali, di cui il paese aveva (ed ha) assolutamente bisogno.

Dietro tutti questi fallimenti c'è una lunga storia, un filo rosso che ha intessuto le culture e gli avvenimenti politici della nostra vita nazionale.
Dà un'ampia e acuta ricostruzione di tutto ciò Paolo Buchignani nel suo ultimo libro Ribelli d'Italia. Il sogno della rivoluzione da Mazzini alle Brigate Rosse (edito da Marsilio).

Qui non è possibile, naturalmente, dar conto di tutta la vasta (oltre 400 pagine) e suggestiva ricerca di Buchignani, e quindi ci soffermeremo su alcuni punti per noi particolarmente importanti e significativi.
Si pensi al "biennio rosso" (1919-1920), nel quale i socialisti massimalisti agitarono ogni giorno il mito della rivoluzione, misero in atto una serie interminabile di scioperi, insultarono e aggredirono i combattenti ritornati dalle trincee della Grande Guerra, occuparono le fabbriche (settembre 1920), e via enumerando. Con effetti ben noti: fu dopo l'occupazione delle fabbriche che il fascismo si rafforzò enormemente e diventò un grande movimento politico.
Dietro l'agitazione rivoluzionaria dei socialisti massimalisti e dei comunisti c'era il mito palingenetico marxista-leninista, che veniva predicato in modo minaccioso e truculento. Perfino una personalità della forza intellettuale e della cultura di Antonio Gramsci scriveva che la piccola e media borghesia era "la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè": una classe che doveva essere espulsa "dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco".
Era, dunque, un programma di vero e proprio annientamento della piccola e media borghesia sorta con la guerra quello che la rivoluzione bolscevica italiana doveva proporsi, secondo Gramsci, "col ferro e col fuoco".

Molto efficaci le pagine che Buchignani dedica alla vita interna del Pci di Togliatti, dalla "svolta di Salerno" in poi. Fatta la scelta (concordata con Stalin) di rinunciare alla rivoluzione, e di percorrere la strada della "democrazia progressiva", basata su un consenso sempre più vasto nel mondo del lavoro, della piccola borghesia e fra gli intellettuali, contro la strategia di Togliatti si manifestarono nel Pci resistenze vivissime (si pensi alla figura di Pietro Secchia, e non solo). Il corpo del partito credette per molto tempo che si trattasse di una mimetizzazione, in attesa dell'ora X.
Ma il mito della rivoluzione palingenetica non caratterizzava solo larghissimi strati del Pci e numerosi suoi dirigenti. Il Partito d'Azione, infatti, scavalcò senz'altro, a sinistra, i comunisti. Scrisse l'azionista Augusto Monti: "Il PdA è rivoluzionario; la rivoluzione si chiama oggi 'comunismo'; il PdA vuole il comunismo. Ma il PdA è liberale, esso quindi vuole il comunismo con metodi liberali". Il comunismo liberale di Monti e del PdA discendeva direttamente da Piero Gobetti: un liberale che aveva ravvisato in Lenin e in Trotski due grandi campioni del liberalismo! In realtà, come ha detto efficacemente Galli della Loggia, il PdA non fece che "proteggere tutti gli spontaneismi, e auspicare tutte le socializzazioni di attività economiche e tutte le democrazie dal basso, fece cioè tutte le cose che non c'entravano nulla con qualsiasi supposta ispirazione liberal-democrática o liberal-socialista".
E' vero che il PdA ebbe vita breve (si sciolse nel 1946), ma parecchi suoi esponenti confluirono in altri partiti, e vi portarono il Verbo. Chi può sottovalutare la responsabilità avuta da Riccardo Lombardi nel fallimento, in senso riformista, del centrosinistra?
Sotto l'impulso di Lombardi il centrosinistra si avviò sulla strada delle nazionalizzazioni, trascurando completamente le umili riforme (case, ospedali, scuola e università, ecc.). Col risultato che il centrosinistra non fece fronte agli squilibri inevitabili creati dallo straordinario "miracolo economico", e quindi preparò il terreno per l'esplosione del 1968'69 (un altro "biennio rosso"!) e degli anni successivi. Ma l'idea fissa di Riccardo Lombardi era quella di preparare a poco a poco col centrosinistra (e dunque con la Dc!) una società socialista.

La "transizione al socialismo" (e quindi il "superamento" del capitalismo) fu una espressione che ebbe larghissima diffusione dopo il Sessantotto, negli anni Settanta. La si trovava sotto la penna degli scrittori del Manifesto, ma anche sotto quella di Berlinguer. Quest'ultimo, infatti, indicava come obiettivo fondamentale del "compromesso storico" (con la Democrazia cristiana) la costruzione di una società interamente nuova, non comunista in senso sovietico, né socialdemocratica: una società (raggiunta attraverso una fumosa "terza via") che non si sapeva bene che cosa sarebbe stata, ma che, in ogni caso, avrebbe seppellito la vecchia società capitalistica. Di nuovo la palingenesi rivoluzionaria!

Mi sono soffermato, ripeto, solo su alcuni aspetti del bel libro di Buchignani. Ma da quel che si è visto appare evidente che per costruire una cultura politica nuova, liberale e riformatrice, noi italiani dobbiamo sbarazzarci di un peso immenso, cioè dei nove decimi del nostro retaggio politico-culturale. Un compito, questo, di grande mole, ma necessario: perché senza una cultura riformatrice di ispirazione liberale, non potremo liberare il nostro paese dagli infiniti vincoli statalistici, corporativi, burocratici e assistenziali, che lo avviluppano e lo paralizzano.

(da Il Foglio - 4-5 febbraio 2017)

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