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L’Italia che il premier ha portato alla Ue

di Paolo Razzuoli

Lo scorso 15 dicembre il neo-presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, dopo aver incassato la fiducia dei due rami del Parlamento al suo Governo, è volato a Bruxelles per il Consiglio Europeo. Negli ultimi sei anni, è stato questo il 45° vertice dei presidenti e/o primi Ministri dei 28 Paesi dell'Unione. Ancora una volta, purtroppo, è stata una occasione in cui, al di là di piccoli segnali, l'Europa ha dimostrato di non essere in condizione di affrontare i nodi che le impediscono di saper cogliere le sfide del mondo che cambia.
Ma non è su questo che intendo soffermarmi; sul punto, ai lettori di Fucinaidee propongo la riflessione di Adriana Cerretelli dal titolo L’immobilismo europeo e il mondo che cambia.

Su altro appunto il mio pensiero, e precisamente sull'Italia che Gentiloni a portato al vertice di Bruxelles.
Un'Italia inequivocabilmente diversa da quella che aveva imboccato una strada di riforme, che Renzi ha cercato di incarnare, e in coerenza con essa ha cercato di impostare il registro dialettico delle relazioni all'interno della Ue, tanto a Bruxelles quanto a Francoforte. Le riforme che ci avete chiesto le stiamo facendo (questo era il succo del ragionamento di Renzi), quindi niente lezioncine e se del caso siamo anche pronti a battere i pugni sul tavolo.
Quelle minacce di veto, quegli strattoni a Juncker o alla Merkel, gli ultimatum e i duelli a distanza, sono destinati ad evaporarsi con la nuova fase post-referendaria.

Immagino che nessuno avrà chiesto a Paolo Gentiloni quanto durerà il suo governo, o quanto tempo prevede occorra per l'approvazione di una nuova legge elettorale. Delresto il vertice era dedicato ad altro, anche se, sicuramente, a livello di staff questi temi non saranno sfuggiti.

Sono i fatti concreti a risultare assai eloquenti, anzitutto per noi, quindi anche per i nostri partners dell'Unione.
Non è solo l’Italia che ha detto «no» al referendum, quella che il nostro Capo del Governo a rappresentato al suo primo Consiglio Ue. È anche quella di una riforma della Pa a metà, bloccata da una non proprio prevedibile sentenza della Corte Costituzionale, del Jobs act su cui pende un altro referendum, di un sistema bancario che scricchiola, di uno scenario politico obiettivamente molto fragile, di un Paese che aspetta una nuova legge elettorale di cui non è possibile prevedere gli orizzonti temporali ed i contenuti.

Dopo quasi un triennio in cui in Italia ed in Europa avevamo coltivata l'illusione che il Paese potesse svegliarsi dal suo torpore, il "No" al referendum ci riporta alla realtà di un Paese ripiegato su se stesso, irriformabile, incapace di uscire dai mali cronici che lo affliggono, condizionato dal potere di interdizione di una miriade di corpi intermedi solo preoccupati di difendere i loro privilegi.
Delresto non sono questi i risultati di una politica debole?
Non è questo che voleva quella parte del Paese che con il "No" ha voluto difendere privilegi e poltrone?

Non può stupire la preoccupazione degli organi di Bruxelles che vede all'orizzonte il rischio della vanificazione delle riforme, se pur parziali, che in questi anni l'Italia era riuscita a portare a casa, proprio a partire dalla riforma del mercato del lavoro, una delle riforme più apprezzate in Europa.

Sono andato a rileggermi la lettera che i responsabili della Banca Centrale Europea inviarono in data 5 agosto 2011 al Governo italiano.
Il contesto era drammatico sul versante economico, tanto che dopo un paio di mesi Berlusconi dovette passare la mano a Monti.

Rileggendo quella lettera, si vedrà che molte di quelle misure richieste dalla Bce sono rimaste appese: iniziate e non terminate oppure mai cominciate. La riforma della pubblica amministrazione, quella del sistema giudiziario, quella del lavoro, la concorrenza. Nella lettera c'è anche un passo che riguarda la riforma costituzionale: "C'é l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)". Solo le nuove pensioni restano in piedi ma con le mille deroghe degli esodati portate avanti fino a oggi, dopo cinque anni dalla legge Fornero. Quello era lo “scambio” possibile tra Italia ed Europa, il prezzo per non finire commissariati e che ha giustificato il vantaggio acquisito con il programma di quantitative easing di Mario Draghi.
Nei prossimi mesi sfumerà anche quello e il rischio di un nuovo picco negli interessi sul debito potrebbe farsi concreto.

IL No al referendum ha messo la parola fine ad una stagione politica e ce ne lascia in eredità una dai contorni deltutto incerti. E' sin troppo facile prevedere che la trattativa per la nuova Legge Elettorale sarà lunga e complessa; non si può nemmeno escludere che qualcuno in Parlamento possa cercare di allungarla per ragioni di contributi dei propri vitalizi.
Un lungo periodo di incertezza politica potrebbe rivelarsi esiziale, ed i prossimi passi in Europa potrebbero diventare più scivolosi. A questo punto, è lecito porsi la domanda se tornerà di nuovo il rischio di un commissariamento, o l'ipotesi di un nuovo cordone sanitario intorno alla situazione del debito o anche del sistema bancario.

Nel frattempo c'è un gran lavorìo nel fronte del No. La minoranza del Pd, che rappresenta quanto di più vecchio e stantio popoli il panorama politico nazionale, si è ritrovata per lanciare la sfida a Renzi. Ho avuto modo di leggere uno stralcio di una dichiarazione di Bersani:
"Tanti dirigenti" della minoranza Pd "per le loro convinzioni sono stati zittiti" ma "non "cederemo all'amarezza o al rancore". "Una fase si è chiusa", basta col "blairismo rimasticato". "Questo non è solo un convegno, qui si è prodotto un fatto politico rilevante: siamo qui a caricarci di compiti nuovi politici e organizzativi, per creare un'alternativa nel Pd" e "promuovere un nuovo campo largo di centrosinistra".E' "alternativa alla narrazione di Renzi".

Chiudo con una "invocazione" al Pd, nel momento in cui si accinge ad avviare la fase congressuale: per cortesia, da questi "Liberateci signori!"

Lucca, 17 dicembre 2016

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