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Breve commento introduttivo

Una volta, durante un convegno, ho ascoltato questa ironica battuta: "Gli economisti dicono una cosa e dopo due anni cercano di spiegare il perchè non si è verificata".
Al di la' dell'esagerazione della battuta, non puo' sfuggire la distanza che separa il mondo dei tecnici e degli intellettuali dal modo di sentire degli elettori.
Non è certo una novità che figure della politica non apprezzate dalla "Intelligencija" abbiano avuto successo, a volte anche molto duraturo, fra gli elettori. Basti pensare a Margaret Thatcher, non certo stimata dai tecnocrati ed intellettuali, ma che ben per tre volte ha vinto le elezioni.
Negli ultimi anni la separazione fra mondo dei tecnocrati ed intellettuali, e del modo di sentire degli elettori, si è accentuato. Sarà per l'incapacità di saper in qualche modo prevedere fenomeni di grave impatto quale, ad esempio, la crisi economica del 2008, sarà per i diversi punti di osservazione/valutazione di fenomeni complessi quale la globalizzazione, i due mondi sembrano sempre piu' muoversi su binari separati.
Questo si può osservare sia in Europa, dove sono in crescita movimenti populisti non certo apprezzati dal mondo degli intellettuali, (in Italia la Lega ed i pentastellati), sia negli Stati Uniti, dove un profilo quale Donald Trump è riuscito ad avere la candidatura per la Casa Bianca.
Un fenomeno che non può essere guardato con superficialità e liquidato, come purtroppo una certa parte è solita fare, come il frutto dell'ingnoranza o dell'ingenuità.
L'erudizione non si identifica certo con la capacità di comprensione dei fenomeni. La storia delresto ce lo insegna: al di fuori di inaccettabili generalizzazioni da cui mi tengo ben distante, non si dimentica che intellettuali certo eruditi hanno avuto ruoli importanti nella preparazione delle più drammatiche tragedie storiche del Novecento.
Il testo che propongo ai lettori di Fucinaidee, se pur prevalentemente focalizzato sulla figura degli economisti, offre spunti di riflessione che possono aiutare a comprendere un fenomeno di primaria importanza per la lettura del presente.

Paolo Razzuoli

Da Brexit ai migranti, perché gli economisti sono sempre più impopolari

di Jean Pisani-Ferry

Nel periodo precedente al voto del 23 giugno per decidere sulla permanenza o meno del loro Paese nell’Unione europea, i cittadini britannici sono stati ampiamenti informati sui pareri dei sostenitori della permanenza nell’Ue. Da parte loro, i leader dei Paesi esteri e le massime autorità morali hanno espresso apertamente la loro inequivocabile preoccupazione rispetto alle conseguenze di un’eventuale uscita del Regno Unito dall’Ue, mentre gran parte degli economisti ha sottolineato in modo significativo che un’eventuale uscita dall’Ue avrebbe comportato dei costi economici consistenti.

Tuttavia questi consigli sono stati totalmente ignorati. Il motivo, secondo un sondaggio condotto da YouGov prima del referendum, è che i sostenitori dell’uscita del Regno Unito dall’Ue non avevano alcuna fiducia in chi elargiva questi consigli e non volevano che il loro giudizio fosse influenzato dai politici, dagli accademici, dai giornalisti, dalle organizzazioni internazionali o dai think tank. Come ha affermato uno dei leader della campagna a favore dell’uscita, ovvero l’ex ministro della giustizia Michael Gove, che per qualche tempo ha anche tentato di prendere il posto di David Cameron come Primo Ministro: «Le persone in questo Paese si sono stancate degli esperti».

Si sarebbe tentati di descrivere quest’atteggiamento come un trionfo della passione sulla razionalità, ma lo schema che si è visto nel Regno Unito è stranamente familiare. Negli Stati Uniti gli elettori repubblicani hanno ignorato gli esperti e hanno nominato Donald Trump come candidato presidenziale per il loro partito. In Francia Marine Le Pen, la leader del partito di estrema destra Fronte Nazionale, non suscita grande simpatia tra gli esperti ma ha un forte sostegno popolare. Un po’ ovunque quindi un numero importante di cittadini è diventato ostile nei confronti degli addetti ai lavori.

Ma da dove scaturisce questa rabbia nei confronti degli esperti? La prima spiegazione è che molti elettori danno poco valore alle opinioni di chi non li ha avvertiti rispetto al rischio di una crisi finanziaria nel 2008. La Regina Elisabetta II ha parlato a nome di molti cittadini quando, durante una visita alla London School of Economics nell’autunno del 2008, ha chiesto perché nessuno fosse riuscito a prevedere il pericolo. Inoltre, il sospetto che molti economisti siano stati influenzati dall’industria finanziaria, ipotesi peraltro espressa chiaramente nel film del 2010 “Inside Job”, non è stato ancora dissipato. I cittadini sono arrabbiati rispetto a ciò che considerano come un tradimento da parte degli intellettuali.

Molti economisti, per non parlare di chi ha conoscenze specialistiche in altre discipline, pensano che queste accuse siano ingiuste in quanto solo pochi di loro si sono focalizzati sugli sviluppi del contesto finanziario, mentre è stata intaccata seriamente la credibilità di tutti. Ma dato che nessuno si è dichiarato colpevole per le sofferenze causate dalla crisi, la colpa è diventata collettiva.

Questa seconda spiegazione è legata alle politiche sostenute dagli esperti che sono spesso accusati di essere di parte non necessariamente perché sono attratti da interessi particolari, ma perché, per la natura della loro professione, sono a favore della mobilità della forza lavoro tra le frontiere, sono per l’apertura del commercio e più in generale, per la globalizzazione.

In effetti c’è un po’ di sostanza in quest’argomentazione in quanto sebbene non tutti gli economisti, e di certo non tutti gli esperti di scienze sociali, sostengano l’integrazione internazionale, sono senza dubbio più inclini a sostenerne i vantaggi rispetto al cittadino comune.

Ciò porta alla terza spiegazione che è anche la più convincente. Se da un lato gli esperti enfatizzano i vantaggi dell’apertura, dall’altra tendono a trascurare o a minimizzare i suoi effetti su specifiche professioni o comunità. Considerano l’immigrazione, alla quale Cameron ha attribuito la vittoria della campagna a favore dell’uscita dall’Ue, come un vantaggio netto per l’economia, ma non si focalizzano sulle conseguenze che ne derivano per i lavoratori che finiscono per avere stipendi più bassi, o per le comunità che si trovano di fronte a una penuria di alloggi accessibili, a scuole affollate e a un sistema sanitario sovraccarico. In altre parole la colpa degli esperti è quella di essere indifferenti.

Questa critica è in gran parte corretta. Come ha evidenziatodiverso tempo fa Ravi Kanbur della Cornell University economisti (e politici) tendono a osservare le questioni in termini di aggregato, ad avere una prospettiva di medio termine e a presumere che i mercati lavorino in modo sufficientemente adeguato da assorbire un’ampia parte degli shock negativi. La loro prospettiva si scontra però con quella delle persone comuni che guardano di più alle questioni legate alla distribuzione, che hanno degli orizzonti temporali diversi (spesso più brevi) e guardano con sospetto i comportamenti monopolistici.

Se gli economisti e altri esperti volessero realmente recuperare la fiducia dei loro concittadini, non dovrebbero continuare a essere sordi nei confronti di queste preoccupazioni. Dovrebbero inanzitutto essere umili, evitare di impartire lezioni e dovrebbero poi sostenere le loro prospettive politiche con delle prove evidenti piuttosto che con preconcetti. Dovrebbero inoltre cambiare idea qualora i dati disponibili non dovessero confermare le loro ipotesi. Tutto ciò corrisponde in realtà a quello che già fanno i ricercatori, ma quando poi si trovano a parlare in pubblico gli esperti tendono a semplificare troppo le loro prospettive.

Per gli economisti essere umili significa anche dover ascoltare gli esperti di altre discipline. Sull’immigrazione dovrebbero ascoltare ciò che hanno da dire i sociologi, gli esperti di scienze politiche o gli psicologi sulle implicazioni della convivenza in comunità multiculturali.

In secondo luogo, gli esperti dovrebbero avere un approccio più granulare. Dovrebbero sempre esaminare l’impatto delle politiche non solo sul Pil aggregato nel medio termine, ma anche su come gli effetti delle politiche implementate vengono distribuiti nel tempo, nello spazio e tra categorie sociali. Una decisione politica può essere positiva nel suo complesso, ma altamente dannosa per alcuni gruppi, che è spesso ciò che accade con le politiche di liberalizzazione.

In terzo luogo, gli economisti dovrebbero andare oltre l’osservazione (generalmente corretta) secondo cui gli effetti legati alla distribuzione possono essere gestiti attraverso la tassazione e i trasferimenti e dovrebbero quindi delineare nello specifico quali misure adottare. In generale se da un lato è vero che una decisione politica può portare a profitti nel suo complesso e chi è in una posizione di perdita può essere compensato, dall’altro è più semplice dirlo che farlo.
In termini pratici è spesso difficile individuare chi perde in un contesto simile e trovare gli strumenti giusti per garantire un sostegno. Affermare che i problemi possono essere risolti senza analizzare come e a quali condizioni è pura e semplice pigrizia intellettuale. Inoltre, dire alle persone che hanno subito dei danni che si sarebbero potuti evitare non dà loro meno motivi per lamentarsi, bensì non fa altro che alimentare il risentimento nei confronti dei tecnocrati.

La crescente sfiducia dell’opinione pubblica nei confronti degli esperti offre terreno fertile ai demagoghi creando quindi anche una minaccia per la democrazia. Gli accademici e i politici potrebbero essere tentati di ignorare ciò che sembra una celebrazione dell’ignoranza e della volontà di rinchiudersi in una torre d’avorio, ma ciò non migliorerebbe le cose. Di fronte a un contesto simile non bisogna arrendersi, ma bisogna invece affrontarlo con più onestà, più umiltà, più analisi granulare e più ricette ben definite.

(dal Sole 24 Ore - 26 agosto 2016)

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