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La strage di Nizza, le premesse per perdere

Tutto lascia credere che il killer abbia agito sotto l’influenza della «retorica jihadista»

di Ernesto Galli della Loggia

Ammettiamo che si tratti di un «lupo solitario». Perfino che si tratti, ancora più banalmente — se si può usare questo termine per un evento di tale smisuratezza sanguinaria — di una persona affetta da disturbi psichici. Resta il fatto che la nazionalità d’origine dell’autore della strage di Nizza, le modalità e l’obiettivo della strage stessa, il suo contesto simbolico, tutto lascia credere che Mohamed Lahouaeij Bouhlel abbia agito perlomeno — perlomeno — sotto l’influenza di quella «retorica jihadista» che, come ha scritto Le Monde, «chiama alla lotta contro gli infedeli, gli ebrei e i crociati, gli Occidentali: un discorso totalitario che predica la guerra con tutti i mezzi contro i miscredenti e altri non credenti».

Come dubitare che proprio tale retorica, diffusa a piene mani nei Paesi del Medio Oriente così come nelle comunità islamiche in Europa e in America attraverso Internet e altri mille canali, rappresenti il problema cruciale della lotta contro il terrorismo?

Come dubitare che se non si fanno i conti con una tale retorica essa finirà inevitabilmente per alimentare sempre nuova e ancora nuova violenza? E infine: come credere che la retorica jihadista di cui sopra non abbia nulla a che fare con la religione islamica? Qui si tocca un problema di fondo quanto mai delicato. Ogni volta infatti che si prova a dire quello che ho appena detto, e magari ci si azzarda anche a indicare — con tutta l’approssimazione del caso, ma i giornali non sono gli Annali dell’Accademia delle Scienze — i motivi di questa implicazione tra la religione islamica e il radicalismo politico dagli esiti terroristici, immediatamente ci si espone alle opportune correzioni, all’invito ai debiti distinguo e ai necessari approfondimenti da parte di chi pensa di saperne o effettivamente ne sa di più.

Il tutto accompagnato alla messa in guardia contro il pericolo di aprire le porte a una guerra di religione. E fin qui sta bene. In una materia così scottante i politici, tra l’altro — e non solo italiani ma di tutta l’Europa che conta — sono sempre d’accordo con tali messe in guardia, con questi appelli alla cautela.

Per la buona ragione che così essi possono evitare ciò che più temono: e cioè, Dio non voglia, prendere decisioni nette e quindi necessariamente impegnative (per esempio tirare in ballo finalmente le responsabilità dell’Arabia Saudita o intervenire con efficacia contro il mercato delle armi). Il fatto è, però, che in tutti i casi che conosco gli inviti di cui ho appena detto, sia pure sacrosanti, evitano però, a me pare, di pronunciarsi poi, a propria volta, nel merito. Cioè di dirci quale sia allora il reale rapporto che intercorre tra religione islamica e radicalismo islamista. E chi, e in che modo, possa eventualmente fare qualcosa.

Sicché alla fine, nella ridda delle obiezioni e delle smentite, si finisce per trarre l’impressione che un tale rapporto in realtà non esista per nulla, e che quindi ci sia ben poco da fare. Con la conseguenza di non poter fare altro che ripiegare su soluzioni mitico-consolatorie tipo «più intelligence», «più dialogo», «più tolleranza», «più integrazione»: che come si capisce è difficile che risolvano qualcosa. La sconfitta che incombe sull’Europa appare insomma come una sconfitta prima di tutto intellettuale. Non riusciamo a metterci d’accordo su chi sono e da quali territori della mente e del cuore vengano i nostri sterminatori.

Addirittura molti tra noi pensano, e più o meno ad alta voce dicono anche, che dei morti di Nizza come di quelli di altri cento luoghi la colpa alla fine sarebbe solo nostra. Del nostro orribile passato di conquistatori (come se le altre civiltà non lo fossero state quanto la nostra) così come del nostro altrettanto orribile presente di «globalizzatori». O magari, per addolcire la pillola, degli americani e delle loro inconsulte guerre. È consentito chiedersi come con tali premesse sia possibile che vinciamo?

Quando gli unici scontri a cui riusciamo a pensare sono quelli di tipo diciamo così spionistico-polizieschi; quando crediamo che conti poco o nulla la religione, cioè la cosa che alla maggior parte dell’umanità appare come la più importante; quando siamo convinti che l’identità culturale sia solo un’invenzione dei reazionari per vincere le elezioni.

(dal Corriere della Sera - 15 luglio 2016)

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