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Breve commento introduttivo

Domenica 17 aprile gli italiani saranno chiamati alle urne per un referendum abrogativo sulle concessioni per l'estrazione del petrolio nei mari italiani.
Molto si e' parlato in questi giorni, non tanto nel merito della consultazione, quanto della posizione astensionista del Presidente del Consiglio, o di altre rilevanti figure del panorama politico nazionale, fra cui il Presidente Emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.
Io sono schierato fra gli astensionisti. Le ragioni della mia scelta sono coincidenti con quelle descritte da Angelo Panebianco nel contributo che propongo all'attenzione dei lettori di Fucinaidee.

Paolo Razzuoli

Referendum trivelle di domenica,perché disertare le urne

di Angelo Panebianco

«Si può non votare: in queste condizioni, chiunque sia contrario a fermare le trivelle ha il diritto di non andare a votare, anche perché i nemici dell’astensione voteranno sì»

Evitiamo le ipocrisie: il risultato del referendum sulle trivelle di domenica dipende solo dal quorum. Se il quorum non ci sarà, fine dei giochi. Se ci sarà, i «sì» (stra)vinceranno. La ragione è semplice: tutti i fautori del «sì» voteranno, i fautori del «no», invece, si divideranno fra votanti e astenuti. In queste condizioni, chiunque sia contrario a fermare le trivelle ha, secondo chi scrive, il diritto di astenersi.

La controprova è che la schiacciante maggioranza dei nemici dell’astensione è favorevole al «sì». Se si considera poi che molti fautori del «sì» sono disinteressati al quesito ma vogliono solo prendersela con il governo, è tanto più saggio «chiamarsi fuori», astenersi. È questa un’opinione, come si vede, opposta a quella sostenuta pochi giorni fa dal presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi.

Affrontiamo il problema generale: votare è un diritto o un dovere? Negli stati totalitari (dove si vota per il partito unico) votare è un dovere e ci sono sanzioni per chi si astiene. Nelle democrazie, invece è (o dovrebbe essere: talvolta anche gli ordinamenti democratici violano questo principio) solo un diritto. Vero è che nel nostro ordinamento il voto è trattato, con ambiguità, come un diritto-dovere. Ma si tratta di un’eredità dell’epoca autoritaria.
Tanto è vero che non ci sono (più) sanzioni. Allo stesso modo erano eredità di quell’epoca le altissime percentuali di voto che caratterizzavano le elezioni quando c’erano i partiti di massa. Quelle percentuali, oltre che dalla capacità di mobilitazione di quei partiti, dipendevano dalla memoria storica: erano un’impronta lasciata dall’autoritarismo del passato.

Certo, poi, ciascuno deve essere libero di pensarla come gli pare. Se lo credono giusto le persone hanno il diritto di ritenere che votare sia sempre dovere del buon cittadino. Ciò attiene però solo alle libere scelte deontologiche dei singoli. C’è invece un importante risvolto pratico che riguarda il votare o l’astenersi. Sia in elezioni che in referendum privi di quorum chi si astiene abdica al proprio potere di influenzare gli esiti, lascia che la decisione sia nelle mani di altri, dei votanti.

Diverso è il caso dei referendum con quorum. Con il quorum le possibilità sono tre: «sì», «no», astensione. Chi non vuole che l’astensione sia una scelta al pari delle altre due deve chiedere l’abolizione del quorum: resterebbero in campo solo i «sì» e i «no».

Altre volte, in passato, ci sono stati appelli per l’astensione in occasione di referendum. Ma allora i presidenti della Corte costituzionale non aprirono bocca. Che cosa è cambiato? È cambiata la posizione della Corte, essa sembra avere scelto un ruolo molto più attivo e intrusivo nelle vicende politiche. Ha cominciato con una sentenza (si è trattato, non solo a parere di chi scrive, di un’invasione di campo) sulla legge elettorale. Ha poi continuato con una decisione sul blocco degli stipendi degli statali che avrebbe potuto incidere pesantemente sulla politica economica e di bilancio. Adesso prosegue con le dichiarazioni del suo presidente sul referendum di domenica.

Si capisce quale sia la causa di questo cambiamento. Per anni, abbiamo avuto una politica rappresentativa debole e delegittimata. Ciò ha consentito a vari corpi e istituzioni di conquistare spazi a scapito della politica. Ma c’è un ma, al quale non dovrebbero essere insensibili i giudici costituzionali. Il prestigio della Corte è alto se essa è percepita come un’istituzione che sta al di fuori della lotta politica. Se quella percezione cambia, la Corte diventa attaccabile come chiunque altro. E, alla fine, il prestigio si indebolisce assai. Non conviene alle istituzioni e non fa bene alla democrazia.

(dal Corriere della Sera - 14 aprile 2016)

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