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Perché il Belgio è diventato la base della jihad in Europa

di Angela Manganaro

C'è chi risale al 1969 per spiegare perché il Belgio è diventato la base della jihad in Europa. Quell'anno re Baldovino diede le chiavi della Grande Moschea del Cinquantenario, la più vecchia della città, sede del Centro islamico e culturale del Belgio (CICB), al re saudita Faysal in visita ufficiale. Un regalo fra re che faciliterà il diffondersi nel piccolo Paese europeo del wahabismo, una delle letture più integraliste dell'Islam oggi dominante in Arabia Saudita, quella che impedisce alle donne di guidare e impone loro i veli più castigati. Era il 1969, e Baldovino prese quella decisione non tanto per amicizia quanto per la crisi petrolifera, ma da allora l'edificio fu concesso in uso per 99 anni al CICB che nel tempo è diventato il maggior luogo di diffusione del salafismo wahabita in Belgio. Un simbolo perché, osservano gli educatori della zona, «la moschea non conta più molto. Ha perso contro Youtube».

Non è certo solo un edificio che racconta perché il commando delle stragi di Parigi del 13 novembre abbia il suo quartier generale a Molenbeek, sobborgo della capitale non lontano dal parlamento europeo; perché il francese Mehdi Nemmouche abbia ucciso quattro persone nell'attentato al museo ebraico di Bruxelles; come Amedy Coulibaly, il terrorista dell'ipermercato kosher in azione il giorno dopo l'attacco a Charlie Hebdo, abbia comprato le armi in Belgio; perché l'estremista marocchino in azione ad agosto sul treno Talhys faceva parte della rete jihadista della città belga di Verviers.

Non c'è solo un motivo a spiegare quello che adesso è sotto gli occhi di tutti, ma le radici sembrano lontane in un paese impegnato a costruire la convivenza fra valloni e fiamminghi che non ha visto e curato altre forme di separazione. Perché se è vero che l'immigrazione non è un problema solo qui, è vero anche che il Belgio ha un numero spropositato di connazionali combattenti in Siria rispetto al numero della popolazione: 300 belgi ammaliati dal richiamo del califfo su 11 milioni di abitanti sono un numero eccessivo se si considera che il primo paese europeo di questa classifica è la Russia: conta 800 combattenti ma è un paese sterminato ed è seguito da altri grandi paesi, la Francia (700), la Gran Bretagna (500), la Germania (400) e la Turchia (400) (fonte: International Center for the Study of Radicalization, 2014).

Ottanta di questi 300 jihadisti vengono da Antwerp, città del nord nelle Fiandre, culla di una organizzazione radicata e organizzatissima, Sharia4Belgium, che ha iniziato a mandare combattenti in Siria nel 2011, anno in cui è scoppiata la guerra civile, originariamente rivolta contro Assad che non aveva ancora visto la radicalizzazione dell’Isis nel Paese ma la ribellione contro il potere a Damasco costituito da un presidente della minoranza alawita riconducibile alla galassia sciita avversata dalla maggioranza sunnita nel paese - sunnita come proclama d’essere l’Isis.

Fatte le debite proporzioni, il Belgio è dunque il primo stato europeo che produce jihadisti da inviare all'Isis in Siria. Un piccolo paese cresciuto in fretta «che per sua natura attira attività illegali», dice a Les Echos Brice De Ruyver, ex consigliere per la sicurezza dell'ex premier Guy Verhofstadt. La sua natura riguarda tre grandi regioni (Vallonia, Fiandre e Bruxelles) e i comuni, un fiorire di amministrazioni e una organizzazione federale in cui la cooperazione tra poliziotti non è semplice né scontata.

Non bastasse, quando era a tutti chiaro che il terrorismo di stampo islamista non era un fenomeno passeggero, in altri posti ci si è preparati a una risposta: già nel 2014 la Gran Bretagna ha pensato di togliere passaporto e cittadinanza a chi era sospettato di terrorismo e di sottoporlo al controllo giudiziario, la Francia aveva pensato a una legge simile, gli Stati uniti hanno votato una proposta di legge per rendere illegale il solo fatto di combattere per lo Stato Islamico o al Qaeda. Il Belgio, che pure aveva il problema in casa, non ha fatto niente di tutto questo. Retate sì ma non risolutive perché oggi Molenbeek non è più la «piccola Manchester», non è solo il sobborgo in cui il tasso di disoccupazione giovanile tocca il 40 per cento, ma un quartiere in cui in una sala da tè una clientela solo maschile segue su Al-Arabiya le ultime notizie da Parigi.

Infine e non ultimo il Belgio è un paese in cui è più facile procurarsi armi, complice anche la decisione di non toccare fino al 2006 una delle legislazioni più permissive d'Europa. «Era facilissimo ottenere un porto d’armi per fucili e pistole - ricorda Brice De Ruyver con Les Echos - e c’era una particolare classificazione per cui certe armi da guerra erano classificate armi sportive». Poi nel 2006 le cose sono cambiate, ma il mercato nero è rimasto florido. Coulibaly il killer, e non solo lui, è venuto qui.

(dal Sole 24 Ore - 22 marzo 2016)

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