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Lavoro, perché Inps e Istat convergono

di Luca Ricolfi

Il mio articolo di domenica scorsa sul mercato del lavoro ha suscitato qualche mal di pancia fra gli esponenti del governo (vedi ad esempio l’intervento di Leonardi e Nannicini, pubblicato sul Sole 24 Ore del 9 febbraio). Comprensibile, perché in quell’articolo osservavo che nel 2015 il peso dell’occupazione precaria sull’occupazione dipendente totale è aumentato, e che non vi è alcun conflitto fra i dati Istat che rilevano tale aumento e i dati delle comunicazioni obbligatorie, che a parere di alcuni racconterebbero un’altra storia.
In più sostenevo che siamo in presenza di una ripresa occupazionale, ma assai debole, già in atto prima del Jobs Act, e fortemente penalizzante per il lavoro autonomo.

Vorrei ora tornare sul tema, cercando di allargare lo sguardo. Non sono un patito dei decimali, e credo che vedere le cose in una prospettiva di medio periodo sia meglio che compulsare ossessivamente le statistiche mensili o trimestrali dell’occupazione, quale che ne sia la provenienza.
Ebbene, se diamo un’occhiata alla serie storica che riporta l’andamento del tasso di occupazione precaria complessivo dei lavoratori dipendenti dal 2004 al 2015, la storia che ne risulta è piuttosto chiara. Il tasso di precarietà era inferiore al 12% nel lontano 2004, anno di inizio della serie storica Istat. Dopo vari alti e bassi anche legati alla recessione del 2008-2009 ha toccato un picco (quasi 14%) nell’estate del 2012, ai tempi del “whatever it takes” di Draghi (regnante Monti). Poi ha iniziato una discesa che è terminata durante l’autunno del 2013 (regnante Letta), quando il tasso di occupazione precaria ha ripreso a salire. Da allora, ossia negli ultimi 2 anni e mezzo, la tendenza di fondo è stata all’aumento, con due modeste pause all’inizio e alla fine del 2015. Il massimo storico del tasso di occupazione precaria (14,6%) è stato toccato nell’estate del 2015.

Se stiamo alle medie annue l’andamento è questo: 13,2% nel 2013, 13,6% nel 2014, 14,0% nel 2015, l’anno peggiore da quando l’Istat distingue fra occupati permanenti(stabili) e temporanei (precari), ossia dal 2004.

Naturalmente si può sostenere che un tasso del 14% non è niente di eccezionale, siamo nella norma europea, e non c’è da preoccuparsi. Però resta da capire perché tante fanfare sono state suonate sul “dramma” dell’occupazione precaria e sulle virtù del Jobs Act, che a quel dramma intendeva porre fine.

E ora parliamo del Jobs Act, o meglio del complesso di misure che, a partire dal marzo del 2014 (23 mesi fa) sono state varate per contrastare il ricorso ai contratti a termine. Mi riferisco soprattutto al decreto Poletti (che in realtà andava nella direzione opposta) e alla decontribuzione totale delle assunzioni a tempo indeterminato, entrati in vigore rispettivamente nel marzo del 2014 e il 1° gennaio del 2015. Credo che nessuno abbia i mezzi (innanzitutto i dati) per misurare con precisione il loro effetto sulla formazione di posti di lavoro, né io pretenderò di farlo. Il mero fatto che gli occupati aumentino, o il peso dei posti di lavoro stabili diminuisca, di per sé non dimostra nulla. Come ben sa chi si occupa di politiche pubbliche, i confronti non vanno fatti con quel che c’era prima, ma con quello che sarebbe successo senza le politiche messe in atto. Ed è perfettamente possibile che, senza quelle politiche, avremmo avuto meno occupati totali, e magari un tasso di occupazione precaria ancora più alto di quello che è dato rilevare oggi. Insomma, decidere se una politica del lavoro ha funzionato, e quanti posti di lavoro (e di che tipo) ha creato è arduo, molto arduo.

Nonostante queste difficoltà, c’è chi a valutare l’impatto del Jobs Act ci prova. Qui però cominciano i problemi, che sono problemi logici prima ancora che statistici. L’argomento centrale di chi sostiene che gli incentivi, soprattutto decontribuzione e Jobs Act, avrebbero funzionato, è la dinamica dei nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, che si ottengono sommando le nuove assunzioni e le trasformazioni di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Una contabilità, questa dei nuovi posti fissi “creati” dal Jobs Act, che ignora i dati Istat e si avvale dell’unica fonte che fornisce dati mensili sulle trasformazioni, ovvero l’Osservatorio Inps sul precariato.
Ebbene, secondo tale fonte, le trasformazioni dei primi 11 mesi del 2015 risulterebbero 388 mila, contro le 309 mila dell’anno prima (79 mila trasformazioni in più). Ma è ragionevole confrontare le trasformazioni del 2015 con quelle del 2014, quando il decreto Poletti (che liberalizzava i contratti precari) spingeva nella direzione opposta? A me parrebbe più sensato chiedersi quale possa essere considerato un livello fisiologico delle trasformazioni, e se nell’anno del Jobs Act le trasformazioni siano state più o meno numerose della norma. Purtroppo le statistiche delle trasformazioni sono diventate di moda solo negli ultimi due anni, perché la politica (sbagliando, a mio parere) le vede come uno strumento di valutazione del successo delle politiche occupazionali.
Però qualcosina si trova, combinando le fonti che si basano sulle comunicazioni obbligatorie. Vediamo.

Primo, l’anno usato come termine di paragone per le trasformazioni (il 2014) è il più basso dei quattro anni per cui si hanno dati: difficile fare peggio che nel 2014. Secondo, il dato del 2015, pur migliore di quello dell’anno precedente, è leggermente peggiore di quello del 2013, che a sua volta è peggiore di quello del 2012. Terzo, fatto 100 il livello delle trasformazioni nel 2012, oggi siamo circa a 80, ovvero il 20% in meno. Non salto alle conclusioni, ma mi pare che ci sia materia su cui riflettere.

I lavoratori a tempo indeterminato, in barba alla retorica che ci dipinge come tutti quanti precari, sono tuttora più dell’85% dei lavoratori dipendenti. Ciò comporta che, anche solo per non aumentare il tasso di occupazione precaria, la formazione netta di nuovi posti di lavoro debba essere sbilanciata a favore dei posti stabili in una misura di circa 7 a 1. Detto altrimenti, se in un dato anno si formano 85 mila posti di lavoro fissi e 15 mila posti di lavoro precari, il tasso di occupazione precaria resta più o meno lo stesso. Se però, a fronte di 85 mila posti fissi in più, i posti di lavoro precari non aumentano di 15 mila unità ma di 30 mila, il tasso di occupazione precaria inesorabilmente aumenta, proprio perché la base di partenza dei precari è piccola (meno del 15%, nonostante un trend di crescita che dura da 12 anni).

Ma se si va a vedere la formazione netta di posti di lavoro, stabili e precari, si deve constatare che negli ultimi anni le fonti relative alle comunicazioni obbligatorie hanno sistematicamente rivelato una formazione netta di posti precari ben superiore al 15%, in perfetta sintonia con ciò che l'Istat rivela.

Unica consolazione: negli ultimi mesi del 2015 tutte le fonti di provenienza dei dati rivelano una leggera retromarcia del tasso di occupazione precaria, che dopo il massimo storico toccato l’estate scorsa, ora è in leggero calo. Non ci resta che sperare che non sia solo l’effetto dell’ultimo assalto dei datori di lavoro all’incentivo della decontribuzione totale, che come si sa scadeva il 31 dicembre 2015. Ma questo lo sapremo solo dopo Pasqua, quando le fonti avranno rilasciato i dati del primo trimestre dell’anno.

(dal Sole 24 Ore - 14 febbraio 2016)

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