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Commento introduttivo

In autunno siterrà il referendum confermativo sulla riforma istituzionale che nelle prossime settimane - con il secondo voto del Senato - vedrà concludersi l'iter parlamentare. Un referendum su cui Renzi - come ha più volte ripetuto - si giocherà l'intera posta della sua carriera politica. Al di là di questa implicazione, il referendum costituirà un momento importante per il Paese.

La riforma istituzionale da sola non può certo risolvere tutti i mali che affliggono l'Italia; ne rappresenta però un presupposto sicuramente di grande portato. Credo che Renzi, quando dice che questa riforma è la "madre di tutte le riforme", abbia ragione.
Certo non è una riforma perfetta; sarebbe stato meglio poter andare oltre, con l'abolizione del Senato, o quantomeno ripensandone in modo piu' radicale il ruolo. Ma in politica, come in tante altre cose della vita, "il meglio è nemico del bene". Questa riforma è sicuramente utile al Paese per cui, pur nella consapevolezza di alcuni suoi limiti, va sostenuta.

Senza infingimenti, credo sia giusto ed intellettualmente onesto riconoscere che nel contesto attuale nessuno avrebbe potuto fare di più e meglio.

Trattandosi di un referendum confermativo, si voterà "sì" per confermare la riforma. Per il "sì" ci impegneremo attivamente.
Già si stanno determinando le coordinate delle posizioni dei partiti, come si può leggere nel contributo di Angelo Panebianco che propongo all'attenzione dei lettori di Fucinaidee.
La coerenza non è certo un piatto forte della politica, ma di fronte ad una parte dello schieramento oppositivo che in passato ha cercato di portare a compimento una riforma costituzionale partendo da valutazioni simili a quelle cui si ispira l'attuale, lascia perplessi.
Vi ricordate la riforma Berlusconiana del 2005 poi bocciata nel referendum del 2006?
Se volete leggerla cliccate qui.
Partiva dagli stessi presupposti dell'attuale (riduzione del numero dei parlamentari, superamento del bicameralismo perfetto e così via), ma era di portata più modesta e, soprattutto, disegnava un quadro istituzionale pasticciato e per nulla snellito.
Per questo, mi schierai con il "no", che poi risultò vincente al referendum del giugno 2006.

Ad un decennio di distanza, il corpo elettorale sarà nuovamente chiamato alle urne per un referendum confermativo su una riforma costituzionale. Sono certo che i siì prevarranno, sicuramente perchè il contesto è molto diverso da allora, ma soprattutto per la qualità decisamente migliore del disegno complessivo della riforma.

SE Renzi vincerà questa partita, penso che dovrà iniziare a giocarne un'altra, quella per entrare davvero in profondità nella riforma dei troppi meccanismi inceppati dei livelli di governo del Paese. E non mi riferisco al DdL di cui si parla in questi giorni, quello insomma del licenziamento per i fannulloni. Licenziare i fannulloni in un paese normale è cosa ovvia anche se in Italia sinora non lo è stato. Mi riferisco quindi a qualcosa di molto più profondo e complesso: ad esempio una riforma della burocrazia che ne riscriva il rapporto con i cittadini, una vera razionalizzazione del governo locale, l'introduzione di un vero meccanismo di responsabilizzazione della dirigenza e così via.
Questo è certo un altro capitolo; se la riforma fosse però bocciata, per molto tempo di questo capitolo non si scriverà nemmeno un paragrafo.

Paolo Razzuoli

Il Senato e le alleanze. Quel club anomalo anti riforma

di Angelo Panebianco

La politica può dare luogo alle più imprevedibili e bizzarre convergenze. Se non abbiamo capito male, nella lotta, già iniziata, fra le opposte propagande in vista del referendum costituzionale di ottobre, assisteremo - come ha già notato Il Foglio - all’alleanza di fatto fra due gruppi (i quali useranno più o meno gli stessi argomenti) che, un tempo, mai avremmo potuto immaginare insieme: gli iper-conservatori costituzionali, i fan della «Costituzione più bella del mondo», a braccetto con i berlusconiani. Per vent’anni, i primi hanno accusato i secondi, oltre che di ogni possibile misfatto, anche di tramare disegni autoritari. Sarà curioso vederli spalla a spalla, mano nella mano, a inveire contro «l’autoritarismo» di Matteo Renzi, a mobilitare il Paese contro l’incombente tirannia renziana. Va peraltro ricordato che fra i due gruppi, e futuri alleati, una differenza importante c’è: gli iper-conservatori costituzionali sono per lo meno coerenti con la propria storia, i berlusconiani no.

Anche se i vantaggi dell’abolizione del bicameralismo paritetico (due Camere con uguali poteri) superano di gran lunga, secondo chi scrive, gli svantaggi, non è certo illecito essere contro la riforma del Senato. Per esempio, perché si è perplessi su certe soluzioni tecniche o su aspetti della riforma che richiederebbero un approfondimento ulteriore (e su cui ha richiamato l’attenzione Michele Ainis sul Corriere del 14 gennaio).

Oppure si è contrari alla riforma perché si ricordano i tanti casi del passato in cui la seconda Camera rimediò a qualche grave errore commesso dalla prima. O anche, per esempio, perché si sostiene una tesi (tutt’altro che disprezzabile) la quale suona grosso modo così: avete già fatto un grave errore abolendo le Province (che avevano tradizioni e dignità amministrativa) anziché quei carrozzoni burocratici che sono le Regioni, e adesso perseverate nell’errore attribuendo alle medesime Regioni - che di sicuro non sono i Lander tedeschi - un potere decisivo nella formazione del nuovo Senato. Sono critiche legittime anche se non dirimenti: l’alternativa, lasciare le cose come stanno, tenersi il bicameralismo paritetico, è peggiore. Ma che dire, invece, dell’obiezione (la principale obiezione dei nemici della riforma) secondo cui il superamento del bicameralismo paritetico sarebbe parte di un disegno autoritario?

È vietato ridere. Perché dietro una simile convinzione c’è qualcosa di molto serio: ci sono, nientemeno, una tradizione costituzionale e una cultura politica che per decenni sono stati dominanti nel nostro Paese. Tutto si decise ai tempi della Costituente. Fu allora che il «complesso del tiranno» da una parte e i reciproci sospetti fra comunisti e democristiani dall’altra, spinsero a creare un assetto costituzionale fondato sulla debolezza dell’esecutivo, un assetto che non doveva permettere in alcun caso la formazione di governi forti e efficienti ma solo di governi fragili, circondati, e anche eventualmente paralizzati, da forti poteri di veto. Un assetto istituzionale in cui c’erano (ed erano fortissimi) i «contrappesi» ma in cui mancava il «peso» di un forte esecutivo. Il bicameralismo paritetico che ora si tenta di superare fu uno di questi cosiddetti, e mal detti, contrappesi.

Fu così che, da allora, in Italia l’assemblearismo è sempre stato confuso con il parlamentarismo (mentre il primo va piuttosto trattato come una forma degenerata del secondo). Fu così che si affermò la stravagante idea secondo cui un governo istituzionalmente forte (come è, ad esempio, il Cancellierato tedesco) sia del tutto incompatibile con la democrazia. Ciò che, a quanto pare, sentiremo ripetere continuamente prima del referendum d’ottobre a proposito di autoritarismi e progetti autoritari ha dunque un’origine antica, e non si spiega se non ricordando ciò che scrisse Keynes: le idee circolanti in ogni momento si devono invariabilmente alla penna di scribacchini defunti ormai da tempo.

L’incapacità di distinguere, di tracciare una linea in grado di separare assemblearismo e parlamentarismo, si trascina dietro un’altra conseguenza: rende difficile riconoscere la differenza che corre fra la democrazia liberale e la democrazia autoritaria. Se volete sapere che cosa sia una democrazia autoritaria dovete guardare alla Turchia di Erdogan o anche alla Russia di quel Putin che, a quanto pare, gode di così vaste simpatie qui in Europa. In una democrazia autoritaria, i media sono controllati dal governo, i giornalisti scomodi finiscono in galera, gli oppositori considerati più pericolosi muoiono per mano di misteriosi assassini che la polizia non riesce mai a trovare. Per cortesia, se è possibile, non si dica che la volontà di superare il bicameralismo paritetico abbia qualcosa a che spartire con tali esperienze.

Oltre a certe virtù, Renzi ha anche, indubbiamente, molti difetti. Fra questi difetti non pare proprio che ci sia quello di voler emulare Erdogan o Putin.

(dal Corriere della Sera - 17 gennaio 2016)

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