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Il ruolo dell'Italia. L’Europa non è solo ripicche

di Antonio Polito

Speriamo che l’Europa non sia come la mamma, che si rimpiange quando non c’è più. Al punto in cui è ridotto il progetto europeo, un Paese fondatore con il peso dell’Italia dovrebbe cominciare a chiedersi che cosa gli conviene. Se partecipare al processo di sgretolamento con una guerriglia di ripicche e rappresaglie, pretendendo svolte che poi non vengono puntualmente dettagliate e proposte nelle sedi giuste, battendo pugni su un tavolo che rischia a breve di non esserci più. Oppure se trasformare l’insofferenza nei confronti di una macchina che ha chiaramente esaurito la benzina, in un’iniziativa politica per rimetterla in moto, fondata su nuove idee e sorretta da un sistema di alleanze.

Il nostro primo ministro, con molte buone ragioni, scalpita. E annuncia altrettanto giustamente che non intende andare più a Bruxelles con il cappello in mano. Liberarsi del complesso di inferiorità è di sicuro la cosa che gli riesce meglio, e speriamo che abbia successo anche in questa campagna dell’ Italian pride che ha lanciato. D’altra parte la Commissione sembra aver perso il controllo della situazione (a proposito, che fine ha fatto il piano Juncker degli investimenti?). Ma se la carica polemica del premier, usata anche a fini interni per fronteggiare l’euroscetticismo leghista, dovesse alla fine sommarsi a quello e convincere così gli italiani che il nostro interesse nazionale può essere meglio garantito senza o fuori l’Europa, allora cadremmo in un pericoloso errore.
Guardiamo a quello che sta accadendo in questi giorni con Schengen. Svezia e Danimarca chiudono una frontiera aperta da mezzo secolo, e Salvini inneggia a Svezia e Danimarca.

Ma se il Nord Europa, un pezzo alla volta, facesse la secessione dal sistema di libera circolazione, l’interesse nazionale italiano sarebbe meglio protetto?
Il contrario. Intanto perché alla Svezia basta chiudere un ponte per isolarsi, e noi difficilmente potremmo fare lo stesso con migliaia di chilometri di costa, affacciata su un mare molto più navigabile di quello del Nord. E poi perché se lassù alzano una diga anti immigrati si tappa l’Italia in un imbuto nel quale si entra ma non si può più uscire. Il progetto di una mini-Schengen del Centro Europa, dunque uno sfaldamento dell’Unione sul tema dell’immigrazione, costituisce un pericolo molto serio per l’Italia. Se vogliamo evitarlo, oltre a battere i pugni sul tavolo, dobbiamo proteggere le frontiere esterne dell’Europa, cioè le nostre, e questo vuol dire anche non inalberarci se ci vengono richieste identificazioni più veloci ed efficaci dei migranti. In una parola, ci conviene che Schengen resista, non che crolli.

Un discorso analogo può essere fatto sulla flessibilità dei conti pubblici, che è diventata il punto fondamentale della polemica di Roma contro l’austerità di marca tedesca. Intanto bisognerebbe capire in che cosa consista questa austerità, visto che lo stesso Renzi si vanta giustamente di aver strappato un punto di Pil in più di disavanzo per finanziare il taglio delle tasse sulla casa e molta spesa pubblica. Ma questo punto ce lo siamo presi sul 2016 solo perché abbiamo rinviato un aggiustamento più o meno delle stesse dimensioni sul 2017, lì dove si accumulano tutte le clausole di salvaguardia tuttora in piedi. Ciò che non facciamo quest’anno dovrà dunque essere fatto in condizioni che potrebbero essere peggiori. Entro il 15 ottobre questa manovra andrà scritta nella legge di Stabilità: il referendum costituzionale si terrà prima o dopo quella data? È il ciclo elettorale che guida l’aggiustamento finanziario?
L’Europa probabilmente ce lo lascerà fare. Di più: un altro punto di Pil ci è stato garantito dalla Banca centrale europea con il suo bazooka di liquidità, che ci fa pagare a tassi bassissimi il nostro debito pubblico e che in un triennio ci farà risparmiare più di 15 miliardi di euro.
Dov’è dunque il nostro interesse nazionale? Si aggiunge spesso un altro argomento: un maggior deficit servirebbe a tenere a bada l’ascesa elettorale dei movimenti cosiddetti populisti. Ma l’argomento non regge alla prova dei fatti: Francia, Spagna e Grecia, i Paesi europei che hanno sforato il limite del 3%, sono anche quelli dove più forti sono i populisti nelle urne, e i regimi di estrema destra di Polonia e Ungheria non sono certo figli di politiche di austerità. Sono i livelli di occupazione a influenzare i comportamenti elettorali e, come l’Italia dovrebbe avere appreso da tempo, molto deficit non dà molto lavoro. È di investimenti, non di più spesa pubblica che abbiamo bisogno.
Sono tanti i casi in cui all’Italia, vaso non abbastanza di ferro per poter viaggiare da solo, conviene l’Europa unita. Poi ci sono anche molti casi in cui dovremmo contare di più a Bruxelles, e Renzi fa bene a battere i pugni (a patto che poi ottenga qualcosa, altrimenti il pugno rischia di riceverlo, come è successo ieri quando Juncker ha sostituito l’ultimo alto funzionario italiano nel suo Gabinetto).

Ma ancor più importante è capire quanto l’Europa conta per noi. E dunque mettersi al lavoro per darle un nuovo motore. Il nostro premier si vanta di aver avviato in Italia un programma di riforme di cui il Paese aveva da tempo bisogno. Piuttosto che tentare di fare le pulci alla Merkel, dovrebbe provare a lavorare con lei a un analogo programma di riforme in Europa: non sono meno importanti per noi italiani.

(dal Corriere della Sera - 6 gennaio 2016)

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