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Europa e Italia, la scossa che serve

di Alberto Quadrio Curzio

Come sarà il 2016 è difficile dire perché la ripresa europea e italiana del 2015 segue alla peggiore crisi del dopoguerra per superare la quale ci vorrà del tempo e delle politiche economiche fiscali e reali più espansive. “Europa. La solidarietà che manca”era il titolo che Il Sole scelse per il nostro articolo di fine 2014. La nostra tesi era e rimane che la Ue e la Uem devono spingere gli investimenti e le infrastrutture (ecocompatibili, materiali, immateriali) perché la politica monetaria espansiva (adesso con l’incognita di tassi zero o negativi) non cancellerà le accresciute asimmetrie tra Paesi e i danni produttivi della crisi e di politiche fiscali troppo rigide.

Per l’Italia sul 2014 segnalavano sia le riforme strutturali (ed istituzionali) in corso o attuate (Jobs Act, decontribuzione, deducibilità Irap su lavoro) sia quelle da fare sull’apparato pubblico, per ridurre le tasse, per spingere il sistema produttivo. Per il 2015 il nostro giudizio migliora molto perché le riforme sono proseguite bene tant’è che l’arcigna Commissione europea ci ha dato più flessibilità di bilancio. La crescita è ritornata positiva ed è iniziata la scalata ai 9 punti di Pil persi tra il 2007 e il 2014.

Europa debole e miope

L’Eurozona (che cresce meno della Ue!) chiude il 2015 con una crescita dell’1,5% (0,9% nel 2014) e con previsioni sull’1,5%-1,6% fino al 2019 quando si concluderà il mandato della Commissione Juncker e del Parlamento europeo. Intanto la Uem sarà sopravanzata di 0,4-0,5 punti percentuali annui dall’aggregato dei Paesi avanzati e di circa 1 punto percentuale dagli Usa. Il fatto che nel 2015 la disoccupazione sia scesa dal 11,5% al 10,8% è positivo. Rimangono però 17 milioni di disoccupati con quella giovanile (sotto i 25 anni) che supera i 3 milioni. Enorme è anche la divaricazione nella disoccupazione tra Paesi membri.

In questa situazione di ripresa lenta le istituzioni europee si affidano a tre politiche: quella delle riforme strutturali e del rigore di bilancio dei Paesi membri; quella monetaria espansiva della Bce da completare con la Unione bancaria; quella degli investimenti del Piano Juncker. Infine la Uem tenta di collocare tutto ciò nel progetto “Completare l’Unione economica e monetaria” elaborato dai 5 presidenti(del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europeo, dell’Eurogruppo e della Bce) che, presentato per la prima volta nel giugno 2012, procede lentissimamente con un traguardo alla fine del 2017.

Purtroppo le istituzioni europee sono miopi sulla deriva dell’euro-scetticismo e dell’euro-disfattismo e sugli effetti di una struttura giuridica troppo complessa e di una burocrazia troppo potente. Si avvantaggiano solo gli Stati forti (anche) nella euroburocrazia creando asimmetrie, giustamente criticate dal presidente Renzi, con gli altri Paesi.

In questo groviglio si depotenziano anche importanti innovazioni. È il caso del ”fondo salva Stati” Esm e del Piano Juncker. Lo Esm nasce nel 2012 con un Trattato internazionale tra gli Stati della Eurozona che ne garantiscono il capitale sottoscritto per 704 miliardi di euro di cui versati 80 miliardi. È una istituzione finanziaria internazionale ben maggiore per capitale versato delle “potenti” Bei (21,6 miliardi di euro) e della Banca mondiale (9,6 miliardi)! L’Esm ha una attuale potenzialità di prestiti per 369 miliardi (al netto dei prestiti per le banche spagnole e per Cipro e Grecia) via emissioni obbligazionarie ai massimi rating (una recente con duration di 40 anni al tasso dell’1,85%!) per evitare danni sistemici alla Uem causati da Stati e da banche.

Ma la bassa crescita, l’alta disoccupazione e l’euro-disfattismo sono anch’essi un pericolo sistemico per tutta la Uem!
Per contrastarlo va usato l’Esm per sostenere il Piano investimenti di Juncker dando garanzie o facendo prestiti per potenziare il ruolo della Bei e delle National Promotional Banks (e loro tramite il credito) e dell’European Fund for Strategic Investment su cui il Piano si fonda. Con 100 miliardi dell’Esm e un moltiplicatore di 5 si avrebbero subito 500 miliardi per investimenti e infrastrutture (contro gli ipotizzati 315 “generati“ dai 21 disponibili del Piano). Una scossa (anche se tardiva e minore rispetto a quelle Usa partite già nel 2009) alla quale solo l’ambiguità politica di governi della Uem può opporre le difficoltà di modifica del Trattato internazionale istitutivo dell’Esm.

Il cantiere Italia

Nell’agosto del 2014 il presidente Renzi ha delineato un disegno di riforme sui mille giorni che portano alla fine della XVII legislatura nel marzo del 2018. In sintesi due sono le direttici politiche ed economiche. La prima è la semplificazione del funzionamento delle Istituzioni, anche con la riforma costituzionale, per dare stabilità ai governi e per ridimensionare la proliferazione normativa e burocratica. È una direttrice già avanzata e apprezzata anche dalle istituzioni europee. La seconda direttrice, pure a buon punto, sono le riforme economiche e fiscali.

Nel 2015 la ripresa si è avviata su tutte le principali grandezze macro con passaggi dai segni “meno” ai segni ”più” sia pure con diversa intensità ma con un dato unificante: il clima di fiducia di famiglie e imprese si avvicina ai massimi con la nostra Borsa migliore della Uem. Non basta di certo anche se per varie previsioni sul triennio 2016-18 potremmo avvicinare la Germania con una crescita tra l’1,3% e l’1,5%. E qui nascono dei distinguo sui meriti e sulle riforme da fare.

Secondo alcuni il merito è dei fattori esogeni favorevoli: una politica monetaria che ha drasticamente ridotto il costo del denaro e quello del collocamento dei titoli di Stato, il prezzo del petrolio e delle materia prime ai minimi, la debolezza dell’euro. Queste spinte positive vanno però scontate da altre più o meno negative. In particolare: quelle sulle nostre esportazioni danneggiate dalle sanzioni alla Russia, dalla crisi dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente, dal rallentamento dei Paesi emergenti; quelle di trascinamento delle crisi aziendali, quelle dell’ibernazione creditizia dovuta a cause pregresse (problemi bancari ben descritti dall’editoriale del direttore del 31 dicembre), recenti (l’errore di non chiedere come la Spagna nel 2012-13 un prestito europeo per ristrutturare un segmento del sistema bancario), attuali (i veti dell’euroburocrazia sia alla band bank sia all’utilizzo del Fondo di tutela dei depositi).

Su questo sfondo il Governo ha intrapreso riforme economiche e politiche espansive già dal 2014 confermandole nel 2015 e per il 2016. La riduzione del carico fiscale sulle famiglie e su fattori di produzione è in atto, altri sgravi (quelli immobiliari) sono previsti per il 2016 mentre per il 2017 si prefigura una riduzione della tassazione su imprese e famiglie. Apprezzabili sono anche misure più specifiche tra cui quelle per il Mezzogiorno, quelle dei super-ammortamenti per gli investimenti in beni strumentali, il bonus fiscale per marchi, l’intendimento emblematico per fare dell’Expo la sede dello “Human Technopole Italy 2040”.

Il Governo punta molto su innovazione e cultura anche per dare al Made in Italy una portata che vada oltre la nostra eccellente manifattura. Infine apprezzabile è il posponimento del pareggio di bilancio strutturale al 2018 e un deficit sul Pil fissato in legge di stabilità al 2,4% (contro un 1,4% tendenziale se non fossero state eliminate le clausole di salvaguardia) senza attendere l’autorizzazione di Bruxelles sulla cui euro-razionalità anche un tecnico-politico come Padoan nutre serie riserve. L’Italia, che pure tra il 2010 e il 2014 ha contribuito con 60,3 miliardi agli euro-salvataggi, non chiede favori ma rifiuta penalizzazioni.

Europa e mondo

Verso l’esterno le istituzioni europee lasciano la leadership a singoli Paesi o al nulla. Ciò è accaduto anche nel 2015 nella somma di tre grandi eventi: l’approvazione di Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’Onu; la XXI conferenza sui cambiamenti climatici il cui accordo è in fase di ratifica; il G-20. Un’Europa vigile doveva evidenziare un criterio politico ed economico unificante: quello che dalla globalizzazione squilibrata bisogna passare al governo cooperativo dello sviluppo mondiale valorizzando in particolare il partenariato pubblico-privato per una crescita sostenibile e inclusiva (specie dei Paesi sottosviluppati) spinta molto da investimenti e infrastrutture ecocompatibili. Invece le miopi istituzioni europee pensano ai decimali e a liberismi dottrinali che impediscono anche l’intervento pubblico interno per superare i fallimenti del mercato (diversamente da quanto fanno tutte le altre democrazie). L’Euroburocrazia non ci darà quel governo politico (scopo pressoché abbandonato dopo la Commissione Prodi) sostenuto dai presidenti Ciampi e Napolitano e ora dal presidente Mattarella.

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