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L’Europa impari ad affrontare il cattivo tempo

di Marta Dassù

La Francia neo-patriottica, pronta a reagire e a combattere, la Francia guerriera di François Hollande, non è solo una scelta politica. E non è solo un riflesso di élite. È anche la risposta della popolazione più giovane, che è stata direttamente colpita dal massacro del Bataclan.
Se era difficile identificarsi nelle vittime di Charlie Hebdo, è tragicamente facile farlo con i caduti del 13 novembre. E’ la notte in cui i giovani francesi ritrovano, nel dramma, la loro identità collettiva. E in cui capiscono di volerla difendere: da allora ad oggi, il numero delle richieste di ingresso nei vari corpi di polizia e nell’Armée professionale è volato alle stelle.

La psicologia sa bene che l’identità, il senso di sé, si nutre anche del nemico; per un ripasso non noioso, l’ultimo film di Woody Allen («The irrational man») è esattamente su questo. Lo stesso punto è studiato nelle relazioni internazionali: gli imperi, dimostrano gli storici, hanno sempre utilizzato i nemici per consolidarsi; espandendosi, tuttavia, hanno creato anche le premesse della loro fragilità.

L’Europa non è propriamente un impero, ma da quando ha perso il nemico originario (l’Urss), e ne ha preso a bordo gli ex-satelliti, ha avuto seri problemi. Ritrovare un nemico comune potrebbe aiutare la coesione europea? Il 13 novembre di Parigi potrà diventare un game-changer?

La risposta non è affatto chiara. Fra dichiarazioni di solidarietà collettiva e aiuti bilaterali in ordine sparso, fra nuove scelte tedesche e antiche prudenze italiane, resta un dato di fatto: l’Unione europea, per riuscire a produrre sicurezza, dovrebbe radicalmente cambiare. Guardiamo un momento alla traiettoria storica. La comunità europea è nata per cancellare le guerre in Europa; mentre si è regolarmente divisa sugli interventi fuori dall’Europa. Dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (1954: veto del parlamento francese), l’Europa è diventata filosoficamente kantiana (pace perpetua) e pragmaticamente Svizzera (l’economia prima di tutto); la realtà è che la sua sicurezza è stata a lungo garantita dagli Stati Uniti.

Il risultato? L’Unione europea si è strutturata solo per «il bel tempo»: anche l’euro ha sofferto di questo vizio di origine. Quando il tempo è diventato cattivo, le giovani generazioni europee – cresciute con Erasmus e la Pax americana - si sono trovate disarmate. Prima di fronte alla crisi economica, con i tassi di disoccupazione che conosciamo; e poi al terrorismo islamista, di cui sono diventate bersaglio.

La tragedia di Parigi ha segnato, da questo punto di vista, una vera e propria wake up call. Il bel tempo è decisamente finito. Ed il problema essenziale, per i futuri cittadini europei, diventa quello di come combinare prevenzione del rischio individuale (per sua natura economico e sociale) e prevenzione del rischio collettivo (proteggere le nostre società democratiche). Il patriottismo dei giovani francesi è una prima risposta. Ma non basterà: se il rischio è europeo, anche la reazione dovrà essere su scala continentale.

Perché la risposta diventi europea le possibilità sono solo due. La prima è la costruzione di un «patriottismo» transnazionale; dai primi anni 2000 in poi, è diventato evidente quanto ciò sia difficile. Dai referendum falliti sulla Costituzione europea, alla gestione della crisi dell’euro, alle divisioni nate sulla questione migratoria, prevale soprattutto la difesa di interessi nazionali o locali. Il nemico, in questo caso, sono genericamente gli altri, inclusa l’Ue: vista come ostacolo, invece che aiuto.
La seconda possibilità - la sola realistica oggi, mi pare - è che l’Ue si doti finalmente di quelle politiche da cattivo tempo di cui è stata priva finora. Perché l’Ue si dimostri un valore aggiunto, dopo Parigi, sono indispensabili almeno tre passi in avanti: la costruzione di una capacità di intelligence europea; un controllo congiunto e che funzioni delle frontiere esterne, con le conseguenze operative e normative che ne derivano; una strategia condivisa - politica e militare - per la Siria e la Libia. Se questi tre passi verranno compiuti, l’Europa si darebbe almeno alcune basi per una politica di sicurezza rispondente ai «nemici» di oggi. Peraltro, questa strada lascia la porta aperta alla costruzione graduale di un senso di identificazione collettiva con un’Europa che funzioni per la tutela degli interessi comuni.

Nuovo patriottismo e politiche europee. E’ una combinazione immaginabile?
Io credo di sì, specie se l’Unione a quasi 30 membri tenderà a strutturarsi sempre più come un’Europa «differenziata» al suo interno. Questo assetto - una Confederazione di Stati Nazionali, che non esclude forme di integrazione più strette, anzitutto nell’area euro - potrà essere rafforzato da un compromesso con Londra.
Se invece l’Unione europea fallirà, dopo Parigi, non sarà mai né una patria potenziale né una Confederazione funzionale agli Stati-nazioni che ne sono membri.

Di conseguenza e per necessità, le giovani generazioni europee, non più in tempi di pace, ma in tempi di guerra, sceglieranno altre vie per difendersi.

(da La Stampa - 29 novembre 2015)

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