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Gli attentati di Parigie il tempo perduto

di Paolo Mieli

Undici mesi fa l’assalto al settimanale «Charlie Hebdo». Lasciamo passare qualche settimana e vedremo chi ha appreso davvero la lezione del teatro Bataclan.

Questa volta, per carità, evitiamo di consolarci urlando «Siamo tutti al Bataclan». Sappiamo come andò undici mesi fa dopo l’attentato a Charlie Hebdo: due settimane di lutto e poi tutto tornò come prima. Per parlare del grado di consapevolezza a cui si era giunti giova ricordare che nei giorni precedenti alla sanguinosa notte di Parigi alcuni intellettuali francesi avevano trovato da ridire sul fatto che François Hollande avesse rifiutato di bandire il vino da una cena a cui era stato invitato l’iraniano Hassan Rouhani (era già accaduto nel 1999 con Jacques Chirac e Mohammed Khatami). Un piccolo episodio, certo. Che vale però un encomio al Presidente francese per il rifiuto a una di quelle forme di cedimento culturale e di sottomissione sempre più diffuse in Occidente e soprattutto in Europa.

Ma torniamo al gennaio scorso. A ridosso dell’attacco islamico a Charlie Hebdo, la Oxford University Press ritenne di emanare «linee guida» per i suoi autori in cui raccomandava di eliminare le parole «maiale» e «carne di maiale» (in tutte le forme: salsicce, salame, prosciutto e così via) nei testi scolastici «in modo da non offendere musulmani ed ebrei». Molti israeliti presero le distanze dall’improvvida iniziativa. Passano cinque mesi e (come ha ben ricordato Pierluigi Battista) sei membri del Pen Club, Peter Carey, Michael Ondaatje, Francine Prose, Teju Cole, Rachel Kushner e Taiye Selasi si sono dissociati dal conferimento di un premio a Charlie Hebdo. A loro si sono uniti altri scrittori tra i quali Joyce Carol Oates con questa dichiarazione: «L’unica satira che conosco bene è quella inglese del Diciottesimo secolo, in particolare quella di Jonathan Swift che era a favore dei deboli irlandesi contro i potenti inglesi. La sua sì che è una satira indignata, morale e immaginata in maniera brillante. Nessun paragone con le vignette di Charlie Hebdo». «C’è una sporca, viscida correttezza politica qui», si scandalizzò il regista David Cronenberg. Inascoltato. Solo Ian McEwan ha protestato poi per il fatto che la Brandeis University avesse ritirato l’offerta di una laurea honoris causa ad Ayaan Hirsi Ali: qui ormai evitiamo di schierarci con Charlie Hebdo «perché potrebbe sembrare che approviamo la “guerra del terrore” di George Bush», ha detto. Secondo McEwan un tale atteggiamento va considerato come frutto di un «tribalismo intellettuale soffocante». Inascoltato anche lui.
Ha avuto molta più eco la scrittrice tunisina Azza Filali quando ha spiegato perché secondo lei Seifeddine Rezgui, aveva provocato, a fine giugno, l’orrenda strage sulla spiaggia di Sousse: Seifeddine, secondo l’autrice di Ouatann , era un ragazzo povero di Gaafour appassionato di danza che si era «offerto volontario per iniziare altri adolescenti della sua regione». Ma ecco che «un piccolo burocrate del comune prende una decisione amministrativa tanto rigida quanto imbecille»: fa chiudere la sala che serviva al ragazzo per allenarsi e dare lezioni ai compagni». «Cosa resta da amare a ventitré anni quando non si hanno mezzi ma tantissimi sogni?», si domandava Azza Filali. Per poi trarre questa morale: «Il killer di Sousse riassume in sé tutti gli elementi del fallimento di un sistema educativo che ha chiuso le porte agli studi umanistici e all’arte e ha condannato la danza, un’attività ove il corpo esulta».

Ecco come e perché si diventa terroristi nel mondo islamico. E quanto a Charlie Hebdo, ha voluto aggiungere di recente Régis Debray, evitiamo di trasformarlo «in un erede di Carlo Magno». A luglio, il nuovo direttore di Charlie Hebdo Laurent Sourisseau (che ha preso il posto dell’ucciso Stéphane Charbonnier), capisce l’antifona e annuncia a Stern che non pubblicherà più vignette dedicate a Maometto o all’Islam. Dopodiché la sua rivista ha dato alle stampe una copertina con la quale ironizzava su Aylan, il bambino in fuga dalla Siria, trovato senza vita sulla spiaggia di Bodrum: «C’est la rentrée», era il titolo per una volta assai poco dissacrante del settimanale. A settembre, il cabarettista olandese Hans Teeuwen, amico del regista di Submission Theo van Gogh ucciso ad Amsterdam nel 2004 (ne aveva tenuto l’orazione funebre impegnandosi a continuare la battaglia contro i «fascioislamici»), annuncia che non si occuperà più di Islam nella sua satira.

E noi italiani? In circostanze di questo genere lasciamo passare il momento del cordoglio e poi annunciamo al mondo che il nostro contributo alla lotta al terrorismo è imperniato su un piano per il ristabilimento dell’ordine in Libia. Un piano che, per merito di noi italiani, è prossimo a realizzarsi. Ma Bernardino León il diplomatico spagnolo che per conto dell’Onu ha seguito fino ad ora le trattative di pace nel Paese che fu di Gheddafi, ha testé abbandonato il campo rivelando di aver accettato già dal mese di giugno il ruolo di direttore generale dell’«accademia diplomatica» di Abu Dhabi dove la sua famiglia si è prontamente trasferita. A dire il vero, il Guardian ha raccontato che a giugno era stata fatta a Leon una prima offerta e lui aveva chiesto più soldi. Il compenso soddisfacente sarebbe adesso di cinquantamila euro mensili (più spese di alloggio e varie). È stata anche resa pubblica una mail del rappresentante dell’Onu al ministro degli Esteri di Abu Dhabi, Sheik Abdullah bin Zayed, in cui è scritto: «Come lei sa non penso di restare a lungo ... Sono considerato come sbilanciato a favore di Tobruk; ho consigliato gli Usa, il Regno Unito e la Ue di lavorare con voi». Insomma León strizzava l’occhio a uno dei contendenti. E il presidente del Parlamento di Tripoli, Nouri Abu Sahmain dice adesso che approvare il suo piano equivarrebbe a «offendere i martiri della rivoluzione libica». Solo Angelo Panebianco su queste pagine e pochissimi altri si sono scandalizzati per questo caso increscioso.

Tristi storie di quelli che si dissero «Charlie». Se in queste ore di lutto vogliamo darci coraggio, ricordiamo il giorno in cui Hollande ha conferito la legion d’onore ai tre cittadini americani (Spencer Stone, Anthony Sadler, Alek Skarlatos) e al britannico Chris Norman che sabato 22 agosto bloccarono disarmati il ventiseienne terrorista marocchino Ayoub al-Quazzani mentre era in procinto di compiere un attentato nel treno superveloce sulla linea Amsterdam Parigi. Il ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve aveva provato a dire che il primo ad aver «individuato» l’attentatore era stato un «cittadino francese». E pudicamente aveva evitato di soffermarsi su quegli uomini del personale che si erano blindati in uno scompartimento e avevano rifiutato di aprire la porta ai passeggeri impauriti. Che dire? Che al momento della verità i comportamenti dei concittadini di quegli eroi del treno sono, in genere, più coerenti. Quanto a noi, stavolta lasciamo passare qualche settimana e vedremo chi ha appreso davvero la lezione del teatro Bataclan.

(dal Corriere della Sera - 15 novembre 2015)

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