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Prima casa, quasi un atto dovuto abolire la tassa

di Luca Ricolfi

La soppressione per tutti (o quasi tutti) della tassa sulla prima casa non è la misura più importante della Legge di stabilità. Il suo peso, infatti, è dell’ordine di 3 miliardi e mezzo, poco più del 10% di una manovra che finirà per assestarsi sui 30 miliardi. E tuttavia il valore simbolico dell’abolizione della tassa più odiata dagli italiani è molto forte. Renzi si appresta a disfare quel che fecero Prodi e Monti, e a rifare quel che fece Berlusconi. Ce n’è abbastanza per sollevare un vespaio, almeno a livello politico. Le obiezioni che si sentono sollevare contro la decisione di Renzi sono almeno cinque.
1. L’abolizione della tassa è una misura demagogica, concepita al solo scopo di aumentare il consenso al governo e al premier.
2. La misura è sciagurata perché i beni immobili sono fra le poche cose che non si possono nascondere al fisco.
3. La misura è iniqua perché i ceti medi ne beneficeranno più dei ceti bassi.
4. L’abolizione della tassa sulla casa, nella misura in cui toglie gettito ai comuni, è un passo indietro sulla strada del federalismo.
5. Le tasse sulla casa sono basse in Italia, e comunque sono fra le meno dannose ai fini della crescita.

Le prime quattro obiezioni sono piuttosto deboli.
La prima è un non sequitur: il fatto che una misura porti consenso al governo che la propone non prova che sia una cattiva misura. Gli stessi che ora si scandalizzano della demagogica (e poco costosa) abolizione della tassa sulla prima casa sono i medesimi che non si scandalizzavano per niente dell’altrettanto demagogico (e ben più costoso) bonus da 80 euro.
La seconda obiezione, secondo cui i beni immobili non si riescono a nascondere al fisco, è smentita da un recente studio del ministero dell’Economia, secondo cui l’evasione Imu sfiora il 30%, una percentuale non certo inferiore a quella delle altre principali tasse.
La tesi dell’iniquità non è del tutto infondata, ma dimentica un particolare cruciale: le imposte sulla casa sono già ultra-inique così, perché i valori catastali sono sganciati da quelli di mercato, e spesso lo sono proprio a favore dei ceti medio-alti, con punte clamorose in regioni come la Liguria. Pensare di usare le imposte sulla casa a fini redistributivi prima di aver attuato la riforma del catasto (una riforma che viene rimandata da decenni, e che pochi mesi fa ha subito l’ennesimo rinvio) significa non sapere in che Paese viviamo.
L’obiezione federalista (così si torna indietro sulla strada del federalismo fiscale) è invece più che giusta, ma un tantino fuori tempo. Il federalismo è stato ampiamente abbandonato almeno dal 5 maggio 2009, quando il Parlamento votò una legge (la Legge 42) che palesemente non poteva funzionare, e infatti non funzionò. Gli ultimi tre governi (Monti-Letta-Renzi) sono stati i meno federalisti della seconda Repubblica, ma hanno avuto il merito di deporre ogni ipocrisia: il federalismo è morto (lo dico con rammarico), ma almeno nessun governo finge più di volerlo realizzare.

Resta l’ultima obiezione, di gran lunga la più importante. La premessa, ossia che le tasse sulla casa siano basse in Italia, era vera prima di Monti, ma è diventata falsa dopo la quasi triplicazione (da 9 a 25 miliardi) che gli ultimi governi ci hanno regalato. Quanto all’idea che l’introduzione di tasse sulla casa non freni granché la crescita (e quindi la loro abolizione non serva a stimolarla), credo sia una questione aperta. A favore delle imposte immobiliari si cita l'opinione della “maggioranza degli economisti”, alcuni studi empirici a sostegno, nonché la “dottrina europea” della gerarchia delle tasse, secondo cui la più dannosa sarebbe quella sui profitti (Ires e Irap), seguita da quelle sul reddito (Irpef), poi da quelle sui consumi (Iva) e infine da quelle sugli immobili (tipo Ici-Imu-Tasi).

Devo dire che anch’io, fino a qualche anno fa (prima del governo Monti), ero persuaso della bontà di questa linea di ragionamento.
Ora non lo sono più, e anzi mi sto convincendo che abbiano ragione i critici e non i difensori delle imposte immobiliari, almeno finché parliamo dell’Italia e dei suoi problemi.
Che cosa mi ha fatto cambiare idea? Un po’ ho cambiato idea perché l’evidenza scientifica a favore della dottrina europea è piuttosto robusta per quanto riguarda la dannosità delle imposte sui profitti, ma è tutt’altro che solida e concorde per quanto riguarda il resto delle tasse, e soprattutto non è in condizione di fare predizioni affidabili su ogni singolo Paese, con le sue peculiarità strutturali e istituzionali. Ma la vera ragione che mi ha fatto cambiare idea è stato il governo Monti, o meglio l’osservazione dei cambiamenti che le misure del governo Monti hanno provocato, o contribuito a provocare.
Nel breve giro di tre anni, fra il 2012 e il 2015, gli italiani hanno perso qualcosa come 1000-1500 miliardi per il crollo dei prezzi delle abitazioni, e l’edilizia ha bruciato mezzo milione di posti di lavoro, pari a circa un quarto dell'occupazione totale del settore. Un vero e proprio shock patrimoniale per le famiglie, un autentico infarto per il settore delle costruzioni. Pensare che, in tale vicenda, la triplicazione delle imposte sulla casa non abbia avuto alcun ruolo, o ne abbia avuto uno trascurabile, mi pare quantomeno azzardato. Tasse più alte significano rendimenti più bassi, che solo prezzi più bassi degli immobili possono compensare. Ma prezzi più bassi delle case implicano costi di produzione al metro quadro pericolosamente vicini al prezzo di vendita, con conseguenti contrazioni dei margini delle imprese, dei livelli di attività, dell’ccupazione.

Ma non è tutto. Il crollo del valore del patrimonio immobiliare ci ha traghettati tutti da un mondo nel quale avere una casa era fonte di sicurezza a un mondo nel quale avere una casa è fonte di incertezza, preoccupazione, qualche volta angoscia. Finché il valore delle case, anche lentamente, tendeva ad aumentare, si poteva pensare che le spese di riparazione e mantenimento, le tasse sulla proprietà, le tasse sugli affitti fossero in qualche misura sterilizzate dall’apprezzamento del valore dell’immobile. Ora non più: esse si vanno a cumulare al trend di deprezzamento degli immobili, innescando e accentuando uno stato psicologico di insicurezza. Si potrebbe pensare che tale senso di insicurezza sia un semplice stato d’animo, una sorta di lato sentimentale della crisi. Purtroppo non è così. Il valore percepito del proprio patrimonio è una delle determinanti chiave della propensione al consumo e all’indebitamento (si chiama effetto ricchezza, o “effetto Pigou”). Se, in questi anni, gli italiani sono divenuti prudentissimi nelle loro decisioni di spesa, con effetti disastrosi sulla domanda interna, è anche perché non hanno più sentito, su di sé, l’ala protettrice dei loro patrimoni famigliari, piccoli e grandi, spesso frutto del lavoro di generazioni. E l’entità di questa débâcle, se ci basiamo sui coefficienti stimati nella letteratura specialistica, è tutt’altro che marginale: almeno 20 miliardi all’anno di minori consumi, ossia il doppio del bonus da 80 euro, e il quadruplo dell’incremento dei consumi che si suppone il bonus possa aver provocato. Naturalmente, non penso che restituire alle famiglie 3,5 miliardi di imposte sulla casa, appena un quarto del maltolto, possa riportare le lancette dell’orologio a quattro anni fa. Né penso che togliere “la tassa” basterà a rilanciare l’edilizia, o a riportare l’antica tranquillità alle famiglie. E tuttavia, dopo anni di ingordigia fiscale, un segnale di moderazione e di astinenza da parte dello Stato ci voleva. È un tassello, solo un primo tassello, ma va a rimarginare una ferita che è fra le più profonde che la crisi ha aperto nel tessuto economico-sociale del Paese.

(dal Sole 24 Ore - 1 novembre 2015)

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