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Commento introduttivo

Nella coscienza collettiva del Paese e' ampiamente diffusa la consapevolezza della necessita' di una profonda riorganizzazione dei comuni e, piu' in generale, del sistema delle autonomie locali.
Lo si avverte chiaramente, parlando tanto con persone tecnicamente e culturalmente ben attrezzate, quanto con comuni cittadini forniti di buon senso.

Ad esempio, in questo tempo di riforme istituzionali, in cui gia' le province hanno vissuto una radicale trasformazione, non raramente mi e' capitato di sentir dire che anziche' sulle province, sarebbe stato meglio intervenire sull'accorpamento dei Comuni e sul ridimensionamento delle Regioni.
Io credo che tutto il sistema dei livelli di governo abbia bisogno di un profondo ripensamento. Il progetto di riforma costituzionale rappresenta un importante passo avanti, ma da solo non e' sufficiente. Occorre andare oltre, affrontando con serieta' e coraggio sia il livello comunale che quello regionale.

In Italia nessuna riforma e' semplice da condurre in porto, figuriamoci una riforma complicata qual e' quella dei livelli di governo.
Naturalmente a livello di bla-bla tutti sono d'accordo. Quando poi si tratta di fare sul serio, bisogna ovviamente partire dagli altri. Guai a chi prova a mettere le mani sui privilegi piu' o meno grandi di cui godono gruppi di interesse piu' o meno protetti, che riescono sempre a trovare qualche supporter politico, pronto ad ascoltare nella speranza di ottenere una manciata di voti.
Se siamo a questo punto e' anche perche' troppo spesso la classe politica ha rinunciato al suo compito piu' alto, quello di elaborare e gestire un progetto di sviluppo della societa', in favore di un assai piu' modesto ruolo: quello di cercare di accontentare gruppi di interesse piu' o meno consistenti, in cambio di un immediato consenso elettorale.

A conferma di cio', basti pensare al ruolo che hanno i sondaggi nel determinare gli orientamenti politici dei governi e dei partiti, o meglio di cio' che di essi e' attualmente rimasto.
Non occorrono troppe argomentazioni per dire che questa e' la negazione di qualsiasi aspirazione ad una politica alta, volta a gettare un solido ponte fra gli interessi dell'attuale e della prossima generazione.
E' purtroppo l'affermazione del gioco politico sulla politica, del corto respiro sulla prospettiva, dell'egoismo del presente sulla doverosa assunzione di responsabilita' nei confronti di chi verra' dopo di noi.

In un simile scenario politico-culturale e' ben difficile immaginare che qualcuno abbia il coraggio di metter mano ad una vera riforma del governo locale, che non potra' prescindere da una drastica riduzione del numero dei comuni.
Provate ad immaginare cosa succede quando si propone di ridurre il numero dei sindaci, degli assessori, dei consiglieri comunali e dei vari organismi locali, appannaggio del sottobosco delle clientele dei partiti. Apriti cielo e spalancati terra: e' un attacco alla democrazia ed alla liberta' delle comunita' locali. Naturalmente si organizza il comitato per la difesa civica e si cerca qualche Santo nell'Olimpo della politica a cui appellarsi per la "difesa dei legittimi interessi della comunita' locale".
SE il Santo e' di quelli che conta e gli interessi elettorali sono importanti, ecco che la riforma prima si depotenzia e si rallenta, poi si blocca e si dimentica.

Ma se si vuole veramente incidere sull'efficienza della pubblica amministrazione e nel contempo ridurre seriamente la spesa, il riassetto del governo locale, in buona sostanza la fusione fra i comuni, e' la seria - anche se non la sola - strada percorribile.
Dal testo che propongo ai lettori di Fucinaidee si apprende che al tempo dell'unita' d'Italia i comuni erano 7720 (Si tenga presente che Trento e Trieste ancora non facevano parte della nazione.)
Allora non c'erano i telefoni, la rete elettrica, le automobili, la radio e la televisione, Internet, il telegrafo era alle prime armi. La maggioranza dei comuni era ed e' montana, e moltissimi si potevano raggiungere solo a piedi o a dorso di mulo.

Allora piccoli comuni avevano un senso. Oggi, in un contesto radicalmente mutato, nessuna seria ragione puo' essere addotta a sostegno dell'esistente.
Non solo non ne abviamo ridotto il numero; lo abbiamo incrementato, sovrapponendogli una miriade di altri enti, creando cosi' un'apparato di governo elefantiaco, costoso ed inefficiente.

Occorre una svolta decisa. Solo trovandone il coraggio, si potra' seriamente parlare di riforma del governo locale e di "spending review".

VA dato atto a Renzi e al suo Governo della volonta' riformatrice. Forse il premier esagera quando afferma che l'Italia ha cambiato verso, ma qualcosa sembra si stia muovendo.
E' pero' ancora presto per dire se veramente il Paese imbocchera' la via del rinnovamento o se invece le forze della conservazione riusciranno nuovamente a prevalere.
IL tempo per il cambiamento non e' tanto, in un mondo in cui tutti i processi sono accelerati e tremendamente complessi. Quando si perde un treno non e' detto che dopo poco ne passi un altro....

Paolo Razzuoli

Comuni, la via della fusione non può più attendere

di Carlo Fusaro - Universita' di Firenze

(dal sito www.irpet.it)

è fervore intorno alla riorganizzazione territoriale di comuni e regioni. Era l'ora. Fra esperti se ne parla da decenni, e sarebbe una "grande riforma", seconda a mio avviso solo a quella costituzionale in corso: perfino più difficile da fare perché è impossibile calarla dall'alto. E allora cominciamo a ragionarne.

Nel dopoguerra il tema - con riferimento alla straordinaria frammentazione comunale in alcune regioni - fu lanciato dal grande maestro del diritto amministrativo italiano, Massimo Severo Giannini, giovane capo di gabinetto di Pietro Nenni ministro per la Costituente: in una famosa ricerca sugli enti locali, coniò l'efficace espressione "comuni polvere", segnalando l'impossibilità di garantire certi servizi (di qualità e a costi ragionevoli) sotto una certa dimensione. Ricerche recenti (S. Iommi, Irpet della Toscana) dicono che il rapporto costi-benefici ottimale si raggiunge in Italia nei comuni sui 30-40.000 abitanti: oltre, l'onere delle infrastrutture diventa elevato e la spesa per abitante sale (anche se con più servizi).

Il fatto è che l'«Italia dei comuni" non è uno slogan, ma una realtà che dall'XI secolo giunge a noi: le nostre comunità locali, al di là di degenerazioni municipalistiche, hanno identità forti e offrono una grande resistenza a qualsiasi sforzo di razionalizzazione.

I dati sono chiari, pur se in 150 anni la dimensione media dei comuni è triplicata (da2900 a 7500 abitanti). Nel 1861 eravamo poco più di 22 milioni per 7720 comuni; ora siamo quasi 61 milioni (2015) per circa ottomila; il numero è quasi lo stesso di quanti ce n'erano all'inizio del'900. La puntasi toccò nel'21 con 9.195 comuni. Il fascismo sfoltì con le maniere forti: nel'31 i comuni erano scesi a 7300. Così nell'Italia liberata fioccarono le leggine per la ricostituzione di quelli soppressi; nel 1953 fu addirittura approvata una legge generale per derogare al limite dei 3000 abitanti per farlo. Si risalì così prima a7800 (1951) e poi ad oltre 8000 comuni (dal 1960).

Questa era la situazione al momento della riforma delle autonomie locali (8.088 comuni). La 142/1990 cercò di promuovere le unioni in vista delle fusioni: il risultato fu che dieci anni dopo i comuni... erano saliti a 8103! Si ritentò con la legge 265/1999 (dalla quale nacque il testo unico 267/2000). Ma dal 1995 al 2013 (diciotto anni), le fusioni toccarono 28 comuni e furono solo undici (saldo negativo 17).

Tutto cambia con la crisi della finanza pubblica di alcuni anni fa. Dalla scorsa legislatura si è cominciato a fare sul serio: da un lato incentivi reali (finanziamenti aggiuntivi per dieci anni e deroghe al patto di stabilità: risorse in più), dall'altro obbligo di esercizio associato di funzioni per tutti i comuni minori.

Due chiarimenti.
Uno: l'associazione fra comuni (unione inclusa) su cui s'è puntato al posto delle impossibili fusioni, è assai utile, ma mai quanto la fusione. Infatti fa sopravvivere la pluralità di organi politici: il che - populismo cialtrone a parte - comporta non solo costi vivi, ma soprattutto maggiori oneri da processo decisionale.
Due: in Italia abbiamo due sfide.
La prima: l'emergenza dei comuni polvere. La Lombardia - da sola - ha 1530 comuni; il Piemonte 1206; non scherzano Abruzzo, Basilicata, Calabria, Friuli, Molise, Sardegna, Trentino-SudTirolo e Valle d'Aosta (dove la dimensione media scende a 1700 abitanti).
La seconda: la "vera" razionalizzazione territoriale per perseguire la scala dimensionale ottimale di cui s'è detto (30/40.000 abitanti/ comune), e questa tocca tutte le regioni. Coi decreti Monti e la legge Delrio qualcosa si è visto, specie in Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana e Trentino. Nel 2014 si sono avute 24 fusioni (il doppio che nei 70 anni precedenti!) con saldo netto di -33; nel 2015, altre 6 (saldo -10): ma ne sono state decise altre 25 (-43). Così stiamo per sfondare, in calo, quota ottomila. E sono in ponte altre 160 fusioni (25 in Emilia-Romagna; 16 in Friuli; 25 in Lombardia; 14 in Toscana; 29 in Veneto): un totale di oltre 400 comuni (potenzialmente meno 250 circa). Alcune regioni si sono date norme legislative ad hoc: e i risultati si vedono. Mi parrebbe compito soprattutto del Pd, che governa 17 regioni su 21 (con le province autonome di Trento e Bolzano), impegnare i propri dirigenti a introdurre ed applicare tutte le politiche volte a promuovere e realizzare le fusioni, mentre riparte il dibattito sul riordino territoriale delle regioni: non meno importante, ma meno maturo (dipende da cosa si vuole facciano le regioni, e dalla sorte degli enti di area vasta: dunque da come sarà applicata, se va in porto come deve, la riforma del titolo V).

Le rivoluzioni non si fanno a chiacchiere, e neanche le riforme: queste potrebbero essere riforme rivoluzionarie. Una classe dirigente si legittima solo così.

Lucca, 6 novembre 2015

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