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I pregiudizi di sinistra sul fisco. Economia e utopie

di Antonio Polito

Gli avversari di Renzi nel Pd lo accusano di non essere un Robin Hood. La manovra del governo - protestano - toglie tasse anche ai ricchi, così non ci saranno risorse da dare ai poveri.
È una polemica antica, e spiega bene perché la sinistra è stata quasi sempre minoritaria nel nostro Paese. Si basa infatti su due pregiudizi e una utopia. Il primo pregiudizio è contro la ricchezza. Non solo contro quella ereditata, frutto cioè di una diseguaglianza di nascita, o quella da rendita. Ma anche contro il benessere di chi ha studiato molto, lavorato sodo e dunque ha guadagnato di più.

Non è affatto detto che una forza di sinistra debba contrastare il successo economico, o punirlo con un’alta tassazione. Dovrebbe piuttosto ampliare la platea di coloro che sono in condizione di raggiungerlo con il talento e l’impegno, e senza danneggiare gli altri come fanno gli evasori. È solo dalla spinta al successo individuale, del resto, che può derivare il successo economico di una comunità. Corre in soccorso il celebre motto di Olof Palme, che alla socialdemocrazia ricordava: «Noi non combattiamo la ricchezza, ma la povertà».

Il secondo pregiudizio consiste nel guardare all’essere sociale esclusivamente in base al suo rapporto di lavoro, mentre in società complesse come la nostra il lavoratore è spesso anche proprietario, risparmiatore e consumatore. Una famiglia del ceto medio, per esempio, può aver investito i suoi risparmi in un secondo appartamento per un figlio, o comprare in contanti il motorino a un altro, senza per questo trasformarsi in un covo di capitalisti .

È dunque un’utopia, finora mai riuscita, l’idea che si possa realizzare la giustizia sociale a colpi di tasse, in un gioco a somma zero nel quale qualcuno deve perdere perché un altro vinca. Mentre la fiscalità va usata per spostare risorse da chi più ha verso servizi universali che aiutino anche chi non ha, come l’educazione, la sanità, l’innovazione tecnologica. Se quei soldi sono spesi bene e non sperperati, sarà la crescita che ne deriva ad accrescere ricchezza e occupazione per l’intera nazione.

Non basta dunque dire che l’azione economica di Renzi copia quella di Berlusconi per valutarne la qualità. L’ex Cavaliere ne ottenne molti voti, ma fallì l’obiettivo di cambiare nel profondo i fondamentali dell’azienda Italia. Allo stesso modo non di tutte le misure del governo Renzi, neanche delle più popolari, possiamo essere sicuri che avranno effetti virtuosi per tutti. Non è chiaro per esempio, neanche a stretti collaboratori del premier, se tagliare la tassa sulla casa possa davvero accrescere i consumi (Bankitalia dubita). Né è ancora chiaro se il costoso sconto contributivo sui nuovi assunti sia servito ad accrescere davvero l’occupazione o solo a trasformare la natura giuridica dei contratti, da «tempo determinato» a «tutele crescenti».
Sono questi però i parametri su cui il renzismo va giudicato. L’errore ideologico dei suoi critici sposta invece l’attenzione sul terreno, a lui favorevolissimo, del buon senso. Ha ragione il premier quando dice che tagliare le tasse non è né di destra né di sinistra, ma semplicemente giusto. La vera domanda è se è sostenibile per il bilancio pubblico e se servirà a rimettere il Paese sul sentiero di una crescita forte e duratura; oppure se, al contrario, dovremo un giorno restituire con gli interessi, come ci è già successo, ciò che oggi con l’ottimismo della volontà ci viene dato.

(dal Corriere della Sera - 18 ottobre 2015)

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