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Nuovo Senato: il metodo e il merito

di Roberto D'Alimonte

A desso il testo approvato dovrà essere approvato di nuovo dalla Camera. Poi dovranno passare tre mesi di decantazione prima del voto finale nei due rami del Parlamento. Sarà un voto senza possibilità di modifiche e richiederà la maggioranza assoluta.
L'ultimo atto sarà poi il referendum confermativo nell'autunno del 2017, pare.

Sulla carta quindi nulla è ancora definitivamente deciso, ma dopo il voto dell'altro ieri in Senato le probabilità di arrivare in fondo sono molto alte. Nel corso del 2016 il nostro paese avrà dunque quella grande riforma che aspettiamo da più di trenta anni.

Eppure le critiche prevalgono sui consensi. Perché?
Forse più del merito della riforma a molti non piace il metodo. Certo, il confronto con quello che è avvenuto tra il 1946 e il 1947 è impietoso. Allora la costituzione fu il risultato di un processo che coinvolse tutte le maggiori forze politiche del paese. I costituenti erano grandi figure politiche ma anche illustri studiosi. Erano profondamente consapevoli del ruolo storico loro assegnato e lo seppero interpretare.
Il parlamento che oggi sta votando il cambiamento di quella costituzione è una platea di figure in gran parte mediocri. Deputati e senatori più preoccupati del loro futuro politico che dei contenuti della riforma.
Per molti è un parlamento addirittura illegittimo perché eletto con un sistema elettorale bocciato dalla Consulta.
In questo parlamento invertebrato la maggioranza a sostegno della riforma è cambiata nel tempo, non è mai stata ampia e dopo la rottura del patto del Nazareno si è assottigliata, è diventata più o meno risicata e spesso raccogliticcia. Come è possibile che questo parlamento in queste condizioni possa fare una buona riforma? È questa la domanda che si fanno in tanti. E la risposta, viste le premesse, non può che essere negativa. Per questa categoria di critici il metodo condiziona irrimediabilmente il merito.

Questo giudizio è comprensibile ma sbagliato. Negare a questo parlamento il diritto di fare le riforme avrebbe comportato due conseguenze: il rinvio di qualunque riforma alla scadenza naturale della legislatura o elezioni anticipate. Entrambe queste opzioni avrebbero a loro volta comportato la mancata approvazione di una nuova legge elettorale. Si sarebbe votato nel 2018, o prima di allora, con il proporzionale introdotto dalla Consulta. Il risultato più probabile sarebbe stato un parlamento ancora più diviso e meno governabile.
Difficile immaginare che avrebbe potuto fare una riforma costituzionale migliore dell'attuale.

In ogni caso non è la strada che poteva percorrere il presidente del Consiglio.
Renzi ha preferito prendersi la responsabilità di fare una riforma costituzionale a maggioranza, così come hanno fatto il centrosinistra nel 2001 e il centrodestra nel 2005. Sarebbe stato certamente meglio farla con una maggioranza più ampia. Ci ha provato, ma non c'è riuscito.

C'è chi dice che questo insuccesso porterà con sé il fallimento della riforma, come fu nel 2006 per quella voluta da Berlusconi. Non c'è dubbio che il voto referendario l'anno prossimo sarà un passaggio decisivo della vita politica del Paese. Renzi si giocherà il suo futuro politico. Ma il premier è abituato alle sfide difficili. Né gli mancheranno le carte per convincere gli elettori.

Le critiche di merito su questa riforma sono inconsistenti e incoerenti. Gli stessi che vedono nella riduzione dei poteri del Senato un attentato alla democrazia sono spesso anche quelli che preferirebbero un parlamento monocamerale.
In realtà, il superamento del bicameralismo attuale è una decisione popolare, come dicono tutti i sondaggi.
Anche la questione dei pesi e dei contrappesi, costantemente invocata per alimentare il timore di una deriva autoritaria, è una critica che non tiene conto di aspetti importanti della riforma. Chi parla di assenza di contrappesi dimentica che la costituzione riformata dà alla opposizione un diritto di veto sulla elezione del nuovo presidente della Repubblica. Saremo l'unico paese della Unione Europea in cui il capo dello stato sarà eletto con una maggioranza dei tre quinti dei votanti e senza una norma che possa mettere fine ad un eventuale stallo. È una scommessa che il premier ha accettato in nome di un maggiore equilibrio sistemico dopo l'approvazione dell'Italicum.

Ma tutto questo non conta, o conta poco, per chi pensa che il metodo prevalga sul merito. In questo caso però il metodo usato sta portando a un risultato che forse non è la soluzione ideale ma è certamente meglio dello status quo.

(dal Sole 24 Ore - 15 ottobre 2015)

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