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Meno Stato per tagliare le tasse

di Francesco Giavazzi

Una parte importante dei risparmi che il governo si propone per il prossimo anno, in modo da abbassare la pressione fiscale, non proviene da tagli alla spesa pubblica, che pure verrà ridotta, ma dall’eliminazione di una messe di agevolazioni fiscali. Ad esempio: il regime privilegiato delle cooperative ci costa, in termini di mancato gettito, 300 milioni l’anno (dati della Ragioneria generale dello Stato); l’accisa ridotta sul gasolio impiegato per l’autotrasporto delle merci e di alcuni passeggeri (inclusi i taxi) un miliardo e mezzo; altrettanto la speciale accisa sul carburante degli aerei; 640 milioni quella sulla navigazione nelle acque interne, e così via. Eliminare questi privilegi, che non sono stati attribuiti con un criterio di efficienza, ma concessi a chi è più bravo nel percorrere i corridoi di Parlamento e ministeri, è certamente un bene. Ma da un diverso punto di vista, cancellare le agevolazioni fiscali significa alzare, non abbassare le tasse. Insomma, per ridurre la pressione fiscale non c’è altro modo che tagliare la spesa.

Nel Regno Unito il governo di David Cameron fra il 2010 e il 2013 ha ridotto le spese di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16 miliardi di euro l’anno. Su tre anni sono quasi 50 miliardi di minori spese. Oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria molto più grave dell’Italia, cresce fra il 2,5 e il 3% l’anno, contro il nostro misero 0,7 previsto per quest’anno.

Perché in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Ritengo che il motivo vero risieda nel grande spazio che Stato, Regioni e Comuni, in una parola la politica, occupano nell’economia del nostro Paese. Fintantoché quello spazio non verrà ridotto, la spesa si può contenere ma non scenderà abbastanza per abbassare in modo significativo le tasse. Un esempio sono le funzioni esercitate da Regioni e Comuni nella raccolta dei rifiuti o nella produzione e distribuzione di acqua ed energia elettrica, funzioni che potrebbero essere svolte in modo spesso più efficiente da imprese private. Ma la politica deriva benefici economici e talvolta elettorali dalla gestione di queste attività (assunzioni, consigli di amministrazione, gestione degli appalti di fornitura) e quindi ha un incentivo a mantenere pubblico il loro controllo, scaricando sui cittadini il costo dei benefici di cui essa si appropria. Ciò non significa che un Paese stia tanto meglio quanto più limitato è lo spazio occupato dallo Stato. Esistono funzioni pubbliche essenziali per il buon funzionamento di una società: la giustizia, l’ordine pubblico, la difesa, scuola e sanità (il che non significa che non vi debba essere spazio anche per il settore privato). Per altre funzioni tuttavia (ad esempio la raccolta dei rifiuti) bisognerebbe sempre chiedersi se il beneficio, al netto dei costi dell’intermediazione politica, giustifichi l’aumento della pressione fiscale che ciò comporta.

L’ex commissario alla revisione della spesa, Carlo Cottarelli, ha censito le società partecipate da amministrazioni locali. Nel 2012 erano 7.726 con mezzo milione di dipendenti. Metà di queste aziende sono o di proprietà interamente pubblica, o comunque a maggioranza pubblica. Nel 2012 le loro perdite lorde (dati del ministero dell’Economia) sono state di circa un miliardo e 200 milioni di euro (senza contare le perdite non palesi coperte da contratti di servizio con le amministrazioni pubbliche). La sola Atac, l’azienda che gestisce il trasporto pubblico di Roma, ha accumulato in otto anni, dal 2006 al 2013, oltre 1,2 miliardi di perdite: in parte per effetto di un organico di 12 mila dipendenti, a fronte dei 9 mila della milanese Atm i quali hanno un costo unitario inferiore del 20%. Il «Piano Cottarelli» propone alcune misure per ridurre il numero di queste aziende da quasi 8 mila a mille, quante sono in Fra ncia, ove pure la presenza dello Stato è pervasiva: chiudere le partecipate non operative, o che comunque hanno dimensioni ridotte in termini di fatturato e/o dipendenti, vietare partecipazioni indirette in società che offrono servizi pubblici privi di rilevanza economica, uscire dalle società in cui il pubblico, nel suo complesso, non raggiunga almeno una quota del 10 per cento, estendere il divieto di partecipazioni indirette ai servizi pubblici privi di rilevanza economica. Non sembrano passi impossibili. E tuttavia nulla accade.

Un altro motivo è che il governo per primo dà un cattivo esempio. Consideriamo la privatizzazione delle Poste. L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, così che i profitti del secondo continueranno a sussidiare il primo in modo non trasparente, deprimendo il valore dell’azienda. Come ha osservato Franco Debenedetti (sul Sole 24 Ore del 21 agosto scorso) è l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. Con la «privatizzazione» il Tesoro manterrà il 60% delle azioni, imporrà un tetto del 5% al possesso azionario, in modo da tener lontani investitori istituzionali, e riserverà una parte delle azioni vendute ai dipendenti (in pratica ai sindacati). Come si fa poi a imporre a Comuni e Regioni di cedere la maggioranza delle aziende pubbliche locali?

(dal Corriere della Sera - 30 agosto 2015)

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