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Libia, gli interessi e i rischi

di Sergio Romano

La possibilità di un accordo e la presenza militare nel Paese africano per vigilare sull’osservanza delle clausole: l’occasione per dimostrare che l’Italia è utile a tutti i suoi partner dell’Unione Europea.

Un accordo sulla Libia è forse meno improbabile di quanto fosse negli scorsi mesi. Molte fazioni sono stanche di combattere. Il Paese ha bisogno di denaro e attende con ansia la ripresa delle esportazioni petrolifere. Il rappresentante dell’Onu, Bernardino León, ha in mano la bozza di un accordo preliminare siglato in Marocco nello scorso luglio da alcune delle parti. La presenza dello Stato Islamico a Derna e i massacri di Sirte, ormai controllata dalle sue milizie, rende l’intesa ancora più necessaria.

Se verrà firmato, tuttavia, l’accordo sarà pur sempre fragile e precario. Non basterà la firma di alcune delle componenti più rappresentative del Paese. Occorrerà una presenza militare autorizzata dall’Onu a cui venga affidato il compito di vigilare sull’osservanza delle clausole concordate, garantire la sicurezza delle istituzioni e la ripresa delle attività produttive, fra cui, in primo luogo, il funzionamento dei pozzi petroliferi. Nel corpo vi saranno truppe di Stati prevalentemente mediterranei, ma occorre un Paese che ne assuma la guida e fornisca il contingente più importante. Non è escluso che questo Paese possa essere l’Italia. Per ragioni storiche ed economiche è oggi il Paese che conosce meglio la Libia, la sua classe dirigente, le sue esigenze. Non può essere considerata direttamente responsabile della sciagurata spedizione del 2011. Può ricorrere alle esperienze e alle conoscenze accumulate dall’Eni negli ultimi decenni.

È pronta a correre i rischi di una operazione che sarà verosimilmente più difficile di quella libanese? Esistono interessi nazionali che dovrebbero spingere il governo ad accettare questa ipotesi? Credo che ve ne siano almeno tre. Il primo è ovviamente economico. Se vi sarà una presenza militare inviata dall’Onu, i pozzi libici potrebbero ricominciare a funzionare e il primo Paese a trarne vantaggio sarebbe l’Italia. Il secondo concerne l’immigrazione. Insieme al corridoio turco, quello della Libia è il percorso preferito dai migranti provenienti dall’Africa e dal Levante. Insieme alla Grecia, l’Italia è la prima tappa per coloro che vogliono raggiungere l’Europa centrale e settentrionale. Una missione militare in Libia permetterebbe di controllare meglio il traffico degli scafisti, di creare le condizioni per accogliere e trattenere i migranti sul suolo libico, di separare quelli che hanno un potenziale diritto d’asilo dalla massa dell’emigrazione sociale.

Il terzo interesse è politico. Nella gestione della crisi del debito greco (l’altro grande problema dell’Unione Europea in questo momento) l’Italia ha dovuto necessariamente limitarsi al ruolo dell’osservatore interessato. In Libia avrebbe una migliore occasione per dimostrare a Bruxelles che il Mediterraneo è la frontiera meridionale dell’Ue, che la sicurezza dell’Italia è la sicurezza di tutti. Non credo che alle Forze armate della Repubblica spiacerebbe recitare questa parte. Hanno fatto buone esperienze in Afghanistan e in Kosovo, avrebbero una carta in più per dimostrare che anche la sicurezza ha un prezzo e che il loro bilancio non può essere trattato come il capro espiatorio della crisi. Non è una questione di «bella figura». È l’occasione per dimostrare che l’Italia è utile a tutti i suoi partner dell’Unione Europea.

(dal Corriere della Sera - 17 agosto 2015)

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