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L’harakiri dell’Italia che non vuole crescere

di Fabrizio Forquet

Dopo settimane a guardare con allarme al possibile contagio che poteva arrivare dall’esterno, dalla Grecia, la giornata di ieri ci ha riportato alla dolorosa realtà di un Paese che deve guardarsi innanzitutto da se stesso. Dalla sua capacità di farsi male da solo, di distruggere con le proprie mani opportunità di rilancio, di umiliare la propria ricchezza. Cos’è, infatti, se non la rappresentazione plastica di un collettivo harakiri, il trittico di immagini andato in onda ieri con le file dei turisti davanti ai cancelli di Pompei sbarrati da un’assemblea sindacale, con i bivacchi in aeroporto in attesa della fine dello sciopero del personale Alitalia, con l’ordinaria giornata di follia del trasporto pubblico romano.

È certamente giusto criticare un’Europa che non fa investimenti, si deve chiedere maggiore flessibilità sui conti, è doveroso sollecitare la Germania a guardare oltre il proprio surplus commerciale, ma se poi nel cuore della stagione estiva, quando milioni di turisti sono pronti a riversarsi nella penisola, l’Italia mostra il suo volto peggiore allora diventa difficile prendersela con il nemico esterno. Qui la colpa è tutta nostra. È la colpa di vertici amministrativi e politici incapaci (nel migliore dei casi) di gestire organizzazioni complesse, ma anche dell’irresponsabilità diffusa dei tanti che si attardano in comportamenti che fanno male a loro stessi e a tutti.

Non bastano evidentemente le parole indignate del ministro Franceschini, che finiscono per suonare come un rito stanco davanti a uno scempio che si ripete. E ancor meno possono bastare le tardive iniziative del sindaco Marino, che non è riuscito neppure un momento in questi anni a dare l’impressione di saper restituire ai romani un livello minimo di civiltà nei servizi pubblici.

Atac è un carrozzone che ha accumulato negli anni un debito di oltre un miliardo e mezzo. Un bene comune? Evidentemente un male comune, una sciagura che costa ai contribuenti molto più del prezzo del biglietto. Nel 2013 il disavanzo è stato di 216 milioni, nel 2014 di 141 milioni, nel 2015 si va verso i 135-140 milioni.

I 200 milioni di ricapitalizzazione da parte del Comune, annunciati ieri da Marino, più gli altri 301 milioni che saranno girati dalla Regione per finanziare il trasporto pubblico locale, sono l’ennesimo contributo a fondo perduto pagato da tutti i contribuenti alla cattiva amministrazione dei servizi pubblici locali (e non è un problema solo di Roma).

Come ha documentato l’Ufficio studi di Mediobanca, il Comune ha già versato oltre un miliardo nelle casse sempre più vuote dell’azienda capitolina. È chiaro che, in queste condizioni, anche annunciare una possibile apertura a quote di minoranza di privati non ha alcun senso.

Chi mai metterebbe un euro in un disastro del genere senza poter mettere bocca nelle scelte aziendali? Chi mai investirebbe in un’azienda dove il solo esercito di dipendenti, oltre undicimila, divora più di 500 milioni all’anno? Dove i macchinisti guidano per 736 ore annue, mentre a Napoli lo fanno per 850 e a Milano per 1.200.

Proprio su questo punto è scattata la protesta dei piccoli sindacati che ha finito per rendere il servizio in questi giorni ancora più infernale del solito.
Si trattava di passare, in base all’intesa del 18 luglio, a 950 ore di guida e di timbrare il badge come in ogni azienda che si rispetti. Troppo evidentemente. O perlomeno abbastanza per bloccare la mobilità dei romani e dare il proprio contributo a deteriorare ulteriormente l’immagine nel mondo della più straordinaria delle città d’arte.

Piccole logiche di parte, di fazione, di consorteria che, come nel caso della nuova protesta dei piloti e degli assistenti Alitalia, zavorrano la volontà di riprendersi della parte migliore del Paese. Inutile progettare, attraverso l’operazione con Etihad, un’apertura ai grandi flussi di traffico passeggeri dall’Asia se poi in Italia si torna alle tante aquile selvagge che negli anni hanno affossato la compagnia di bandiera. Come è inutile programmare il rilancio degli scavi di Pompei se poi arriva un’assemblea sindacale a compromettere ulteriormente nel mondo l’immagine - già pessima - della gestione dei nostri beni culturali.

Miserie, beghe locali, interessi piccolissimi che mettono piombo in quella economia turistica che potrebbe – e dovrebbe - essere uno dei volani di rilancio del Paese. E poco importa, in questa logica autolesionistica, se poi questa ricchezza si sposta verso realtà che sono anni luce avanti per qualità dei servizi e rispetto degli utenti. Tanto, se il lavoro non c’è, c’è sempre la possibilità di prendersela con l’Europa o con il nemico esterno che complotta contro l’Italia.

(dal Sole 24 Ore - 25 luglio 2015)

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