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L'intervista. Migranti, Renzi: «Battaglia forte in Europa ma è pronto un piano B»

di Maria Teresa Meli

D. - Presidente Renzi è un momento complicato per l'Italia.

R. - «No, è un bel momento, con buona pace dei gufi e dei profeti di sventura. L'occupazione sale di 200 mila unità. La crescita ha di nuovo il segno più, i consumi segnano un risveglio. Veniamo da un G7 dove non eravamo più il problema, ma parte della soluzione. La fame di Italia nel mondo tira l'export come non mai. E l'Expo che doveva essere un disastro annunciato è un fiore all'occhiello. Potrei proseguire con esempi di tutti i tipi. Eppure il dibattito politico interno è incartato solo sulle cose che non vanno. Sembra che una parte della classe dirigente di questo Paese non viva senza ricorrere alla paura. Del diverso, dell'immigrazione, del futuro. Ma noi abbiamo scommesso sul coraggio, non sulla paura, e dunque avanti tutta».

D. - Bè, l'immigrazione è una vera e propria emergenza.

R. - «Guai a sottovalutarla. È un tema grave e - diciamolo chiaro - le risposte che l'Europa sta dando sono insufficienti. Redistribuire solo 24 mila persone è quasi una provocazione».

D. - Ma se la Ue non vi ascolterà è vero che adotterete una linea più dura sull'immigrazione?

R. - «Nei prossimi giorni ci giochiamo molto dell'identità europea e la nostra voce si farà sentire forte perché è la voce di un Paese fondatore. Se il consiglio europeo sceglierà la solidarietà, bene. Se non lo farà, abbiamo pronto il piano B. Ma sarebbe una ferita innanzitutto per l'Europa. Vogliamo lavorare fino all'ultimo per dare una risposta europea. Per questo vedrò nei prossimi giorni Hollande e Cameron e riparlerò con Juncker e Merkel. In Europa va cambiato il principio sancito da Dublino II e votato convintamente da chi oggi protesta contro il nostro governo.
La comunità internazionale è responsabile di ciò che accade in Libia in ragione dell'intervento di 4 anni fa e della scarsa attenzione successivamente dedicata al tema. Se la Libia non trova un assetto istituzionale, diventa la calamita per fanatici e terroristi e dunque ci stiamo giocando una partita di portata storica. La vogliamo affrontare con la serietà di un Paese che è una potenza mondiale o inseguendo chi fa tweet sulla scabbia e propone di sparare al primo che passa? Torniamo al buon senso».

D. - Si riferisce a Salvini, presidente?

R. - «Certo che mi riferisco a lui. Strillare di epidemie significa procurare allarmismo ma tutti i report medici dicono che non è così. Se volessimo fare polemica, potremmo criticare il fatto che la Lega a Strasburgo ha votato contro la proposta di aiutare l'Italia ridistribuendo le quote di immigrati: il colmo! Ma non è tempo di divisione: ieri ho chiamato Zaia e Maroni. Ho offerto e chiesto collaborazione istituzionale».

D. - Intanto la Francia respinge i profughi e le Regioni non li vogliono.

R. - «La situazione è tesa, ma i numeri sono appena più alti dello scorso anno: al 13 giugno 2014 avevamo accolto 53.827 persone. Al 13 giugno 2015 siamo a 57.167. Numeri sostanzialmente simili. Senza contare che le persone che sono ferme nelle stazioni hanno un biglietto per lasciare l'Italia: il blocco di qualche giorno di Schengen li sta tenendo fermi qui, ma per loro non è l'Italia la destinazione. Il tempo della campagna elettorale è finito: noi stiamo aprendo un fronte in Europa difficilissimo, mi piacerebbe che l'intero sistema istituzionale - compresi i governatori leghisti - facesse il tifo per l'Italia.
Quando vado all'Expo vedo cittadini di tutto il mondo arrivare entusiasti e felici di Milano, dell'Italia. Apro i siti e sembra che Milano sia il sobborgo di una megalopoli malata. Gridare al lupo ti fa ottenere un voto in più, ma quando i quotidiani internazionali mettono in discussione la tenuta del sistema turistico come accaduto ieri, ci rendiamo conto che stiamo facendo danno all'Italia? Il problema c'è. Ma quando vedo iniettare nel dibattito pubblico dosi di terrore verbale, temo la reazione istintiva, di pancia. In economia possiamo rilanciare solo se le aziende, i risparmiatori, gli investitori vivono una fiducia che è ben giustificata dalle riforme in atto. E nella vita di tutti i giorni abbiamo necessità di tornare a credere nelle istituzioni».

D. - Squinzi si lamenta perché l'Italia è esclusa dai vertici europei sulla Grecia.

R. - «Rispetto la sua posizione. Ma a quei vertici non vado. Non è un problema di inviti, visto che Tsipras mi ha più volte chiesto di partecipare. Solo che noi abbiamo una cultura europeista per cui i problemi si affrontano nelle sedi istituzionali, non nei caminetti. Alexis si è affidato alla Merkel e a quelli che hanno seguito la sua campagna elettorale spunta un sorriso, visto ciò che diceva allora. Ma se questo è ciò che vuole la Grecia, ok. Solo che l'Italia partecipa ai vertici istituzionali, non a quelli informali. Per spiegare ai greci che non possiamo pagare le baby pensioni a loro dopo aver fatto tanta fatica per toglierle agli italiani non serve una riunione. Tutti noi vogliamo la Grecia nell'Euro, ma devono volerlo anche loro: noi siamo pronti a dare una mano. È maturo il momento della svolta economica per l'Europa, puntando più sulla crescita che sull'austerità. Ma per arrivarci occorre aver completato il percorso delle riforme strutturali, a cominciare dalle nostre».

D. - Voterete sì all'arresto di Azzollini?

R. - «Leggeremo le carte. Se emergerà il fumus persecutionis voteremo contro l'arresto. Se tutto sarà in linea con la Costituzione e con le leggi, voteremo a favore dell'arresto, come abbiamo fatto anche con i nostri. Gli sconti si fanno nei negozi, non in Parlamento».

D. - Quando sospenderà De Luca?

R. - «Sulla Severino faremo ciò che prevede la legge, senza interventi ad personam. Esiste una contraddizione, perché de Magistris e De Luca sono nella stessa situazione, non si capisce perché uno dovrebbe essere sospeso e l'altro no. Vedremo le decisioni dei giudici. Nel frattempo sto dialogando con De Luca sui dossier più importanti, a cominciare dalla nomina del commissario di Bagnoli che andrà in cdm venerdì assieme ad alcuni decreti fiscali e molto altro».

D. - Dopo il suo incontro con Putin come sono i rapporti con gli Usa?

R. - «Ottimi. Obama ha più volte espresso apprezzamento per le riforme italiane che al G7 ha definito "coraggiose". Sull'economia gli americani sono punto di riferimento: più crescita, meno austerity. Sulla Libia, sono gli unici che hanno chiara la situazione e ci stanno fornendo tutto il supporto come noi facciamo con loro altrove. Sulla Russia abbiamo discusso in amicizia soprattutto nel vertice alla Casa Bianca, condividendo anche le sfumature. Il G7 è uscito con una posizione condivisa: si dia corso integralmente agli accordi di Minsk 2. Lo stesso Putin si è detto favorevole. Adesso lavoriamo per passare dalle parole ai fatti».

D. - Se l'inchiesta romana dovesse decapitare altri vertici del Pd in giunta e in consiglio comunale continuerete a dire «o Marino o morte»?

R. - «Ho rispetto per Ignazio Marino. Non possiamo però sottovalutare il messaggio che viene da Roma. Ci sono due questioni differenti. Sul piano giuridico aspettiamo le carte, ma personalmente non vedo elementi per sciogliere il Comune per mafia. Non si tratta solo di una questione mediatica internazionale, ma di un giudizio basato su quello che ad ora abbiamo letto. Se - come credo - la questione scioglimento per mafia non esiste, dovremo affrontare politicamente (in sede Pd) la questione Roma. Il partito va rifondato come ha iniziato a fare bene Orfini. Migliaia di ragazzi vogliono fare politica in quella città e un Pd capitolino profondamente ripensato può accoglierli, valorizzarli, esaltarli. Possiamo studiare una grande campagna sui circoli, come propone lo studio di Barca. Possiamo inventarci il modello organizzativo del partito del nuovo secolo, prendendo dal male di questa situazione il bene. Il governo è pronto a fare la propria parte ma è finito il tempo in cui si davano i soldi a Roma capitale con leggerezza. Se decideremo di andare avanti lo faremo solo se convinti, non per paura di perdere il Comune. Dobbiamo cambiare l'Italia e l'Europa, possiamo aver paura di Di Battista o dei delfini di Alemanno?
Il mio Pd non può mai aver paura delle elezioni. Mai. Altrimenti diventa come gli altri».

D. - Ma veramente crede di arrivare fino al 2018 con i numeri del Senato?

R. - «Al Senato i numeri sono più solidi del passato. Credo che la maggioranza dei parlamentari non voglia interrompere questo percorso di riforme. Il mio governo oggettivamente ha fatto in 15 mesi cose ferme da anni: riforma elettorale, Jobs act, il pacchetto di interventi sulla giustizia. E siamo in pista su riforma costituzionale, diritti e terzo settore, pubblica amministrazione, fisco. Gli interventi economici, dagli 80 euro al taglio Irap del costo del lavoro, hanno rilanciato l'economia italiana. Gli investitori internazionali tornano a credere in noi. Vorrei essere chiaro: si può sempre fare di più. E cercheremo di farlo. Se poi deputati e senatori si sono stancati di noi, basta togliere la fiducia delle Camere e vediamo chi prenderà quella dei cittadini. Ma non vedo praticabile questo scenario: a mio giudizio la legislatura andrà avanti fino al 2018».

D. - Sta per cambiare i vertici della Cdp?

R. - «Bassanini e Gorno Tempini hanno fatto un buon lavoro. Nelle prossime ore decideremo le nuove tappe. Cassa depositi e prestiti è strategica per il futuro del nostro Paese e ci sono tutte le condizioni per fare un ulteriore passo in avanti».

D. - Non la imbarazza sapere che Buzzi ha finanziato alcune sue iniziative? Restituirà quei soldi?

R. - «La fondazione Open restituisce in automatico i denari ricevuti da realtà discusse. Il Pd ha uno statuto diverso. Ma troverà la strada per restituirli.
Quello di cui sono fiero invece è il meccanismo all'americana che stiamo mettendo in atto per finanziare la politica. Superato il finanziamento pubblico, siamo l'unico partito che non ha licenziato il personale, ricorrendo a una seria spending e aumentando donazioni liberali e trasparenti. Meglio così che i diamanti in Tanzania o le lauree a Tirana del Trota, mi creda».

D. - Non le sembra che sia cambiato il vento nei suoi confronti?

R. - «Mi chiedono di inventarmi qualche colpo a effetto. Ma dopo anni di immobilismo in Italia l'unico colpo a effetto che può fare il capo del governo è governare quotidianamente con serietà e responsabilità. Il tasso di attuazione dei decreti è salito al 65%, tutti i dossier procedono, le aziende pubbliche, a partire da Eni, Enel e Finmeccanica, dopo il cambio dei vertici viaggiano più spedite. Certo se il Jobs act lo avessero fatto quelli di prima, oggi staremmo meglio. Se si fosse fatta prima la legge elettorale, avremmo un sistema più stabile. Se avessero già fatto la riforma costituzionale non impiegheremmo mesi per approvare una legge. Chiunque può passare il tempo a piangere e rimpiangere. Ma noi siamo diversi da chi ci ha preceduto. Non vogliamo trovare alibi, ma trovare soluzioni. Ora dobbiamo continuare sulla strada delle riforme, più decisi che mai. Ma la prima riforma, strutturale, è restituire orgoglio all'Italia e fiducia agli italiani. E in questo clima questa è la sfida più difficile. Però è anche la più bella. Dopo quindici mesi di governo sono più convinto di prima che il nostro Paese tornerà a guidare l'Europa. A noi toccherà sudare e lavorare molto. I nostri figli però staranno meglio di noi. Questo è il vero motivo per cui facciamo politica. Non per godere della rendita del passato, ma per costruire una speranza per il domani».

(dal Corriere della Sera - 14 giugno 2015)

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