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Molto rilievo e' stato dato allo storico incontro avvenuto a Panama fra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e quello cubano, Raul Castro. Un evento di portata storica, che speriamo possa portare ad una svolta positiva una vicenda iniziata alla fine degli anni '50 e che, nel 1962, porto' il mondo sull'orlo di un conflitto nucleare.
Sul tema, mi sembra interessante proporre ai lettori di Fucinaidee alcune riflessioni di Sergio romano, ex ambasciatore ed uno dei piu' acuti esperti italiani di politica internazionale.

Paolo Razzuoli

Dopo la lunga frattura.
Ma il traguardo degli Usa è riavvicinare l’America Latina

di Sergio Romano

Il presidente degli Stati Uniti ha fretta. Dopo avere impiegato buona parte del suo primo mandato nel tentativo, non sempre riuscito, di liberare il suo Paese dal fardello delle due guerre di George W. Bush, Obama è impegnato in operazioni che potrebbero modificare l’immagine e il ruolo internazionale degli Stati Uniti.
Come nel caso dell’Iran, anche in quello di Cuba il presidente sarà bersaglio di molte critiche, non solo dei suoi avversari politici. Gli verrà rimproverato di avere conferito legittimità internazionale a un regime tirannico, di non avere preteso da Raúl Castro impegni formali sul rispetto dei diritti umani e civili. Ma Obama può rispondere, non senza ragione, che la politica dell’embargo, dopo essere stata praticata per più di mezzo secolo, non ha dato alcun risultato.

I Castro sono sempre al potere e il cambiamento di regime, che gli Stati Uniti speravano di provocare con le sanzioni, non ha avuto luogo. È opportuno continuare ad adottare misure che hanno colpito la popolazione molto più di quanto abbiano ferito il regime?

Per favorire i mutamenti con altri mezzi, Obama dispone ora di una carta che i suoi predecessori non avevano. Per parecchi decenni i cubani della Florida, ormai cittadini americani, condizionavano la politica degli Stati Uniti riservando i loro voti ai candidati che promettevano di non revocare l’embargo. Oggi, due generazioni dopo l’inizio dell’esilio, sembrano soprattutto desiderosi di visitare l’isola, di aiutare i parenti rimasti in patria, di sfruttare e allargare le modeste aperture del regime. Se la politica di Obama favorirà i viaggi e gli scambi, i cubani della Florida potrebbero avere, all’interno della società cubana, il ruolo di una provvidenziale quinta colonna.

È possibile che il quadro politico latino-americano favorisca Obama. Il fronte anti-yankee, che si era costituito durante i due mandati di George W. Bush, si sta logorando. In Venezuela Nicolás Maduro non sa come correggere la politica demagogica di Chávez e non ha il carisma con cui il suo predecessore incantava le folle. In Bolivia e in Ecuador, Evo Morales e Rafael Correa non esercitano più sul subcontinente l’influenza del passato. Nei due maggiori Paesi - Argentina e Brasile - l’economia è stagnante e l’immagine delle due donne al vertice dello Stato (Cristina Fernandez de Kirchner e Dilma Roussef) si è appannata.

Se eviterà lo stile di altri presidenti americani Obama troverà in America Latina nuovi spazi e nuove occasioni. Ma sarebbe stato più difficile coglierle se non si fosse sbarazzato della questione cubana. Per molti anni l’embargo è stato l’arma di cui i Castro potevano servirsi per mobilitare il patriottismo latino-americano contro l’arrogante impero del Nord.
Oggi, per merito di Obama, quell’arma è spuntata. Il presidente lo sa, ma occorre che anche una più larga area della società politica degli Stati Uniti ne sia consapevole.

(dal Corriere Della Sera - 12 aprile 2015)

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