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Commento introduttivo

La corruzione e' il cancro piu' pericoloso della vita pubblica italiana. Un cancro con metastasi sparse un po' per tutto il corpo dell'apparato di governo: nazionale ma anche locale. Non occorre un grande sforzo per fare esempi. Basta pensare a quante amministrazioni regionali sono finite sotto inchiesta, o al Comune di Roma o al Mose di Venezia. Sono questi solo alcuni degli esempi piu' eclatanti, ma ad essi se ne affiancano tanti altri, di portata meno rilevante, quindi non cosi' presenti sui media nazionali.

Un quadro sconcertante, un pozzo di cui non si riesce a vedere il fondo.
Colpi di mazza per distruggere quel poco che ormai resta di fiducia fra paese reale e classe di governo.

Proprio partendo da questo dato, mi pare che non si possa non richiamare la necessita' di gestire le situazioni con strumenti idonei e con grande equilibrio.
Equilibrio che non puo' certamente ne' essere il risultato della pressione mediatica, ne' di una legislazione nata su impulso di singoli eventi. Da questo modo di procedere, che e' purtroppo quello con cui ci si e' mossi in Italia dal tempo di tangentopoli, non puo' venire niente di buono.
Sembra che si sia messo nel cassetto il grande patrimonio di pensiero giuridico italiano: quello - ad esempio - di una figura quale Piero Calamandrei, o quello che si rispecchia nella nostra Carta Costituzionale.
L'impressione e' quella di una giungla in cui piu' che una visione complessiva prevalgano spinte riconducibili alle convenienze legate ai singoli episodi.
Un quadro reso ancor piu' ingarbugliato dalla mancanza dell'adeguamento della disciplina sulle intercettazioni, soprattutto con riferimento alla loro diffusione, che tenga conto dell'evoluzione dei media ed in generale del mondo della comunicazione. Le discussioni su questo argomento - anche in sede parlamentare - a mio avviso sono state sinora uno dei peggiori esempi di come le posizioni espresse abbiano rispecchiato veri e/o presunti interessi partitici anziche' lo sforzo di dare al Paese uno strumento di civilta'.

MI sono apparsi interessanti gli spunti di riflessione che il noto giornalista Antonio Polito esprime nel testo che sottopongo ai lettori di Fucinaidee.

Paolo Razzuoli

Due pesi, due misure, un leader

di Antonio Polito

Maurizio Lupi, ministro della Repubblica, non indagato, dimesso. Vincenzo De Luca, candidato governatore della Campania, condannato in primo grado per abuso di ufficio, non dimesso. Francesca Barracciu, indagata, candidata governatore della Sardegna, dimessa; poi promossa sottosegretario (insieme ad altri tre sottosegretari indagati, sulla cui posizione pare che il premier stia ora riflettendo). Nunzia De Girolamo, ministro, all’epoca non indagata, dimessa.

Ce n’è abbastanza per chiedersi se esista un nuovo codice non scritto per il trattamento dei politici che finiscono negli scandali, e chi l’abbia scritto.
Di certo quello vecchio è caduto in disuso. All’epoca di Tangentopoli bastava un avviso di garanzia per tagliare la testa a un membro del governo. Ma anche dopo, nella Seconda Repubblica, vigeva una prassi che potremmo definire sì «giustizialista», ma regolata. In sostanza consisteva nell’affidare ai pm e ai giudici la selezione della classe dirigente: a ogni provvedimento giurisdizionale seguiva una più o meno adeguata sanzione politica. Prassi poi codificata in legge con la Severino, che fissa nella prima condanna il limite oltre il quale scattano le punizioni, cominciando con la sospensione per finire con la decadenza in caso di sentenza definitiva.

Ma oggi, nell’era Renzi, la Severino è contestata per eccessiva rigidità, e infatti pur condannato De Luca si candida; mentre sembra essersi alzata la soglia di tolleranza per i non indagati. La spiegazione potrebbe essere nello strapotere del premier: in realtà si dimette solo chi decide lui. E qualcuno perciò lo accusa di colpire di preferenza gli scandali degli altri, e di coprire quelli più vicini a lui; un classico caso di due pesi e due misure.

Ma neanche questo sembra essere del tutto vero, perché fu Renzi a far dimettere il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, democratico, indagato, che non ne aveva alcuna voglia. Qual è allora il nuovo criterio?

Io credo che sia l’umore dell’opinione pubblica, di cui Renzi si considera un buon medium. Nel senso che il premier usa come metro morale il suo gradimento politico: se una condanna può essere perdonata dagli elettori (nel caso di De Luca, per esempio, parrebbe di sì, visto che ha vinto le primarie) lui lascia perdere, se capisce che può arrecargli un danno serio nel suo rapporto con l’opinione pubblica, come nel caso di Lupi, diventa inflessibile.
È un metodo a suo modo politico, certo più di quello giustizialista che non si può davvero rimpiangere; ma senza regole, e molto arbitrario. Soprattutto perché dipende da circostanze e dettagli casuali, spesso senza rilevanza penale, che possono molto influenzare l’opinione pubblica se sono mediaticamente efficaci. Un Rolex in regalo, per esempio, un abito di sartoria in offerta, un modo di parlare sgradevole o volgare al telefono, valgono mille condanne penali nel tribunale del popolo e dei media. E non è certo una novità. Berlusconi ha pagato molto di più in termini di consenso e di credibilità per il caso Ruby, nel quale è stato assolto, che nel processo per frode fiscale in cui è stato condannato.

È un processo tipico delle società di massa, ma pieno di incognite. Se infatti un’intercettazione è più importante di una sentenza, e diventa decisivo se farla conoscere o no, per riassunto o testuale, e il momento dell’inchiesta in cui la si rende pubblica, allora rischiamo che la lotta politica condizioni il corso della giustizia, invece che la giustizia influenzi la politica come avveniva vent’anni fa. Un giustizialismo alla rovescia, esercitato dalla piazza invece che dal tribunale.

Non so se è meglio. Fu una piazza a salvare Barabba e a mandare a morte Gesù.

(dal Corriere della Sera - 21 marzo 2015)

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