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Commento introduttivo

Il recente attivismo delle aziende di Berlusconi, ed in particolare l’offerta pubblica di acquisto di Ei Towers su Rai Way, ha sollevato un prevedibile vespaio in cui la dimensione politica si intreccia con quella specificatamente economico-finanziaria.
Non vi e' alcun dubbio sulla delicatezza della questione, posto che si tratta delle torri di trasmissione del segnale radiotelevisivo della Rai. Il Governo prevede che la maggioranza rimanga in mano pubblica, consentendo la vendita sino al 49% del capitale azionario.
Alcune reazioni politiche, tuttavia, riecheggiano posizioni dal solito sapore antiberlusconiano, che non aiutano per una analisi e valutazione della questione.

La riflessione di Orsina che propongo ai lettori di Fucinaidee, mi pare contenga elementi interessanti.
Alcune perplessita' le ho sulle conclusioni. Il bipolarismo fra un polo diciamo "conservatore" ed un altro diciamo"progressista" e' stato sicuramente l'assetto che in molte democrazie europee ha dato ottimi risultati. Da noi ha funzionato male, come delresto dice anche Orsina.
Oggi pero' lo scenario sta cambiando profondamente, sotto la spinta della globalizzazione che, come sottolineano molti analisti a mio avviso acuti, richiede canoni interpretativi molto diversi dal passato.
Se e' vero che il mercato si e' affermato come paradigma economica generalmente accettato, e' pur vero che e' impensabile che nel teatro globale il mercato non debba essere regolato, per un giusto riequilibrio di contesti profondamente diversi. Un po' semplificando, forse il futuro richiede ricette bipartisan: l'affermazione del mercato e' un dato ancorato alla logica capitalistica, ma esso dovra' in qualche modo essere regolato, mediante elementi culturali ancorati alla tradizione socialdemocratica.
Qui in Europa vi e' poi il fenomeno dello sviluppo di formazioni estremiste, di destra e di sinistra che, se pur da presupposti e conclusioni alternative, si oppongono alla prospettiva europeista cosi' come e' stata pensata negli ultimi decenni.
Oggi molti paesi, fra cui l'Italia e la Germania, analogamente all'Unione Europea, sono governati da coalizioni che vedono la collaborazione fra partiti tradizionalmente appartenenti a campi fra loro alternativi.
Si dice che trattasi di parentesi e che poi ciascuno riprendera' il proprio percorso. Ma siamo proprio sicuri? Non potrebbe questa fase rappresentare un momento di passaggio verso una diversa articolazione del quadro politico europeo?
Siamo sicuri che un assetto pensato in epoca tanto diversa da quella attuale non debba lasciare il posto a nuovi scenari nei quali il vero discrimine sia tracciato fra coloro che hanno capacita' di lettura della contemporaneita' e cercano di dare risposte politiche coerenti, e fra quelli che, spaventati o incapaci di leggere il nostro tempo si rinchiudono in schemi ideologici del passato?

Ovviamente non so dare una risposta. Qualcuno potra' anche pensare che i miei sono pensieri in liberta'.
Di una cosa pero' mi sento sicuro: il mondo di oggi, cambiato cosi' repentinamente rispetto a quello di ieri, non puo' essere interpretato con gli "attrezzi politici" del passato.

Paolo Razzuoli

Berlusconi ormai non è più un politico

di giovanni orsina

Non mi pare affatto impossibile dare una lettura politica dell’attivismo che stanno mostrando negli ultimi tempi le aziende di Berlusconi - l’offerta pubblica di acquisto di Ei Towers su Rai Way, ma anche l’ipotesi di acquisizione della Rcs Libri da parte di Mondadori della quale s’è parlato qualche giorno fa. E ritengo pure che di questo attivismo possa essere dato un giudizio sostanzialmente positivo – non malgrado le sue scaturigini politiche, ma proprio a motivo di quelle scaturigini.

Di che tipo di lettura politica stiamo parlando, dunque? Di una lettura che vede nel lungo, lento ma irreversibile tramonto del Berlusconi politico la condizione, o se si vuole la spinta, perché le sue aziende tornino a fare le aziende: scendano sul mercato, e dal mercato traggano le proprie ragioni di forza. E della possibilità che si chiuda finalmente, dopo vent’anni, l’anomalia del conflitto di interessi, e si muova un passo in avanti verso una situazione di fisiologia democratica: una situazione nella quale la politica la fanno i politici, gli affari li fanno gli imprenditori, e le due categorie interagiscono in una maniera – fisiologicamente, appunto – dialettica.

Il conflitto di interessi non è venuto dal nulla, ma è derivato in larga misura dall’anomala tempesta giudiziaria dei primi Anni Novanta. Tangentopoli da un lato ha spazzato via partiti e classi politiche sul versante destro dello spazio pubblico, lasciando milioni di elettori orfani di rappresentanza dalla sera alla mattina e spalancando un vuoto che poteva essere riempito soltanto grazie a risorse non comuni – e non politiche. Per un altro ha delegittimato i politici di professione, ponendo le condizioni perché si attivasse il mito dell’imprenditore in politica che Berlusconi ha saputo incarnare a perfezione. Chi pensa che la ventennale stagione del bipolarismo, resa perciò possibile anche dal conflitto di interessi, abbia rappresentato soltanto un’enorme perdita di tempo, a mio avviso è in errore. Il bipolarismo ha funzionato male, non c’è dubbio. Ma gli italiani hanno potuto votare contro il governo in carica con la concreta possibilità di disarcionarlo e metterne un altro al suo posto. Era la prima volta che ciò accadeva da quando c’è l’Italia. In termini di civiltà politica, e guardando alle cose con la pazienza dello storico, non mi pare poco.

Ora il conflitto di interessi ha smesso di giocare il ruolo di «sostegno» dello schema bipolare – ed è bene che sia così: si pongono le premesse per un po’ più di normalità, e Dio sa se ne abbiamo bisogno. Come usciamo però da questa catena di anomalie? Come possiamo evitare di cadere da una padella anomala in una brace più anomala ancora? Mi pare che a questo punto le sfide siano essenzialmente due. Una aziendale, l’altra politica.

In primo luogo, visto che il berlusconismo politico si avvia a esser consegnato alla storia, è bene che insieme a lui sia rimesso sugli scaffali pure l’antiberlusconismo in servizio permanente effettivo – che porta anch’esso, come il suo antagonista, non poche responsabilità per gli errori commessi nell’ultimo ventennio. Questo non vuol dire che qualsiasi iniziativa delle aziende di Berlusconi debba essere salutata a priori come buona e giusta. Vuol dire però che le iniziative di quelle aziende non possono neppure essere ritenute a priori perfide e malvagie – o viste unicamente come il frutto avvelenato d’un patto del Nazareno che, in verità, in questi ultimi tempi non è che se la stia passando granché bene. Tanto più in un Paese come l’Italia, che soffre da sempre di un eccesso di «nanismo aziendale» e ha un settore culturale relativamente piccolo e asfittico. Tanto più se il mercato dà un giudizio largamente positivo delle operazioni in corso – si vedano le reazioni della Borsa all’offerta pubblica d’acquisto su Rai Way. Tanto più in un’epoca storica nella quale i mezzi di comunicazione si moltiplicano, e crescono a dismisura sia la concorrenza, sia gli strumenti che le istituzioni pubbliche possono utilizzare per evitare eccessive concentrazioni di potere, senza però penalizzare le imprese.

La seconda sfida è quella della destra che verrà. Se l’impero berlusconiano torna a essere un impero soprattutto economico, se il mito dell’imprenditore in politica è tramontato, è soltanto sul terreno squisitamente politico che potrà allora prendere forma un nuovo schieramento di centrodestra che, opponendosi a Renzi, consolidi l’acquisizione di civiltà del bipolarismo e dell’alternanza al potere. Certo, la politica oggi a destra latita assai. Con la pazienza dello storico, però, si può confidare che, prima o poi, sia destinata a tornare.

(da La Stampa - 26 febbraio 2015)

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