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L’illusione che non ci riguardi

di mario calabresi

Viviamo circondati dalle crisi, facciamo finta che non ci siano, poi d’improvviso, costretti dagli eventi, scopriamo che non esiste solo la crisi italiana. Da un paio d’anni ormai ci guardiamo l’ombelico, come se quello che accade fuori dai nostri confini fosse ininfluente, impegnati a dibattere esclusivamente di problemi di politica interna, caparbiamente chiusi nella nostra bolla.

Così ci accorgiamo che la crisi ucraina e le sue conseguenze ci riguardano, non solo in termini di sicurezza ma anche economici, che dipendiamo dalle esportazioni verso la Russia come dai turisti di Mosca che sono scomparsi dalle nostre Alpi. Così nel mondo globale la Grecia ci riguarda e cosa fare non può essere solo un tema di simpatie o antipatie e non possiamo lasciare che il nostro giudizio sui debiti da pagare sia influenzato dal modo di vestirsi di un ministro dell’Economia.

Adesso ci è venuta addosso la Libia, con tutto il suo carico di pericoli e destabilizzazione. L’abbiamo di fronte a casa, siamo i più esposti alle ondate migratorie e al pericolo terrorismo e le spiagge dove sono stati sgozzati gli operai egiziani si affacciano sul nostro mare. Ma finora nel Parlamento che urla e grida continuamente, dove da un anno si discute di legge elettorale, non abbiamo visto nessuno alzarsi per dire ad alta voce che dobbiamo occuparcene.

L’Italia ha fatto grandi cose con l’operazione Mare Nostrum, mostrando capacità operative e coscienza umanitaria, ma anche su questo non c’è stato un dibattito profondo capace di coinvolgere l’opinione pubblica e quando abbiamo chiesto all’Europa di fare la sua parte la risposta è stata debole e poco credibile.

Ora è tempo di affrontare seriamente il tema Libia, di aprire un dibattito vero nella società e in Parlamento, in cui si valutino i rischi di un’azione ma anche i pericoli dell’inazione.

Abbiamo di fronte uno Stato che non esiste più, uno spazio occupato da bande rivali, con due governi contrapposti e in cui si moltiplicano gli avamposti di un estremismo islamico che si richiamano al Califfato.
Tutto era cominciato esattamente quattro anni fa a Bengasi, sull’onda delle primavere arabe, quando migliaia di persone scesero in piazza dando il via alla «Rivoluzione del 17 febbraio». Prima che la rivolta venisse schiacciata nel sangue da Gheddafi cominciarono i raid aerei francesi - una scelta ancora oggi non chiara nelle sue motivazioni e nelle sue finalità - a cui si accodò la Nato.

Nessuno pianse la caduta di Gheddafi e basterebbe leggere le testimonianze delle persone torturate e imprigionate dal suo regime per farsi passare la voglia di rimpiangerlo. Ma pensare che bastasse bombardare per liberare le migliori energie, capaci da sole di costruire una società nuova e democratica era non solo una pura illusione ma un modo di lavarsene le mani.

Il dibattito pubblico europeo nel frattempo si è dimenticato della Libia, ci sono voluti i barconi dei migranti cacciati a forza in mare in pieno inverno, le immagini delle decapitazioni dei cristiani copti e le minacce dell’Isis, oltre che la precipitosa fuga degli ultimi occidentali con la chiusura dell’unica ambasciata rimasta aperta - quella italiana - per svegliare la nostra attenzione.

Ora c’è bisogno di tutto tranne che di avventate fughe in avanti, di nuovi exploit senza un disegno stabilizzatore alle spalle e c’è bisogno di avere chiaro cosa si vuole provare a fare. Parlare di missione di pace è una evidente finzione, come già in passato, perché nessuno accoglierà militari stranieri a braccia aperte, di certo non i jihadisti.

Dall’altra parte rifugiarsi nell’illusione dell’inazione può essere pericolosissimo, non ci possiamo permettere di convivere con basi terroristiche sull’uscio di casa facendo finta di niente.

Ma perché le scelte siano serie e ponderate bisogna cominciare con il chiarire non tanto il numero di soldati necessari per un’azione militare, ma piuttosto la reale situazione della Libia e cosa si può provare a fare contro il caos. Non possiamo nemmeno pensare un intervento senza avere chiaro il peso e l’orientamento delle fazioni che sono in lotta e senza aver scelto quali potrebbero essere gli alleati sul terreno. E poi per fare cosa? Con chi? Solo a quel punto si potrà discutere se intervenire nel quadro di un mandato dell’Onu. Ma anche qui è necessario costruire le condizioni per un’operazione ampia, a cui partecipino innanzitutto i Paesi dell’area e che abbia ben chiari finalità e obiettivi.

In questo quadro però noi italiani dobbiamo tenere presente un’altra cosa: il nostro passato. La nostra avventura coloniale fu fatta di stragi e torture e dobbiamo muoverci con molta cautela, la memoria in Libia è viva e sarebbe facile denunciare un altro colonialismo e chiamare alla guerra contro i nuovi crociati. Anche per questo è necessario che qualunque iniziativa avvenga insieme ai paesi arabi dell’area e non ci siano fughe in avanti italiane o europee.
Bisogna muoversi con chiarezza e serietà. Ci siamo illusi per troppo tempo di poter chiudere la porta ai problemi del mondo, di poter discutere solo di Imu, Tasi o articolo 18, ma ora i problemi sono entrati in casa e ci è richiesto di essere responsabili. Questo mondo è troppo complicato e interdipendente per permettere a noi italiani il lusso di stare alla finestra o l’illusione di essere immuni dal contagio.

(da La Stampa - 17 febbraio 2015)

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