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Dopo Mosca scenari fragili

di roberto toscano

Se qualcuno avesse avuto ancora dubbi sulla drammaticità e pericolosità del conflitto in corso nell’Ucraina orientale, il viaggio a Mosca di Angela Merkel e François Hollande dovrebbe indurlo a rivedere le proprie valutazioni. Non sembra esagerato ritenere questo tentativo come una sorta di ultima spiaggia per la diplomazia, dopo di che si aprirebbero scenari imprevedibili, ma comunque inquietanti.

Ma quali sono le prospettive? E su quali basi potrebbe essere trovato un compromesso capace di disinnescare la dirompente carica – tragica per le conseguenze umane e destabilizzante per gli equilibri europei – che caratterizza il conflitto nel Donbass? Certamente l’obiettivo del viaggio non può essere interpretato come teso ad ottenere un chiarimento circa gli obiettivi di Vladimir Putin. Troppo evidente, ormai, è il fatto che la sua è una politica di revisionismo territoriale tesa a rendere reversibile, quanto meno nelle zone abitate da popolazioni russofone, la fine di quella fase della Russia Imperiale che andava sotto il nome di Unione Sovietica.

Dopo la secessione della Crimea, oggi Putin mira a conseguire il riconoscimento, nell’Ucraina orientale, del nuovo status quo territoriale che si è venuto a creare a seguito dell’avanzata degli insorti che la Russia ispira, finanzia ed arma.

Da parte russa si parla del riconoscimento di forme di autonomia, ma sarebbe difficile dimenticare quello che Mosca è riuscita a imporre in Transnistria, in Abkhazia e nella Ossezia del Sud: la creazione di territori che, anche se con uno status ambiguo (e internazionalmente non riconosciuto), di fatto sono stati incorporati alla Russia.

Per quanto sia Hollande sia Mer-kel ribadiscano un giorno sì e uno no un incrollabile impegno per l’integrità territoriale dell’Ucraina, sembra difficile immaginare come Putin possa essere indotto a fare marcia indietro rispetto al suo evidente disegno strategico, che fra l’altro riscuote in Russia un forte consenso popolare. Questo spiega la sostanziale freddezza con cui la missione di pace dei due leaders europei è stata accolta da parte degli Stati Uniti, preoccupati di possibili cedimenti – e, va aggiunto, sempre sospettosi delle intermittenti velleità degli europei di elaborare proprie iniziative di politica estera. E’ più che legittimo, effettivamente, essere scettici sulla possibilità di influire, con una miscela di trattative e sanzioni, su un dirigente politico che, come ha scritto ieri su queste pagine Stefano Stefanini, «non arretra di fronte al disastro economico e all’isolamento internazionale» dato che «ragiona in termini di potere, nazione e territorio, e non di economia, benessere e pace ai confini».

Ma se si può essere scettici sullo strumento diplomatico, non minori sono le perplessità che suscita la via alternativa, quella di puntare sul rafforzamento delle capacità militari ucraine. L’idea che le forze armate ucraine, per quanto aiutate dall’Occidente, siano in grado di battere quelle russe appare molto meno realistica della speranza che funzioni la diplomazia.

Un qualche tipo di intesa, quanto meno capace di ridurre i danni e scongiurare il peggio, dovrebbe tuttavia essere possibile. Ad esempio, sembra di poter dire che la prospettiva di un ingresso ucraino nella Nato (adombrata nel 2008) sia ad un tempo per la Russia un’autentica fonte di preoccupazione geopolitica e un utile pretesto per mettere in atto il disegno revanscista e revisionista di Putin. Non sarebbe male ascoltare i consigli di due protagonisti della Guerra Fredda come Kissinger e Brzezinski e fare marcia indietro rispetto a quell’improvvida e poco realistica prospettiva, ribadendo nel contempo la credibilità della garanzia che la Nato fornisce ai suoi membri. Una necessità, quest’ultima, suggerita non solo dall’opportunità di togliere di mezzo il pretesto principale della politica russa verso l’Ucraina quanto dall’importanza di tranquillizzare i comprensibili timori degli Stati baltici, dove l’irrisolto problema delle minoranze russe potrebbe indurre Mosca a ulteriori, devastanti disegni di «separatismi assistiti».

Il viaggio di Merkel e Hollande ha un significato che va anche oltre la crisi ucraina, nella misura in cui segna il ritorno di una politica estera molto «classica», basata sul ruolo degli Stati più che sul multilateralismo o l’integrazione. Certo, possiamo sperare che questa ritrovata coincidenza fra Parigi e Berlino possa preludere al rilancio di quel motore franco-tedesco cui l’integrazione europea deve moltissimo, ma non si può non vedere che risulta ancora una volta confermato che l’Unione Europea come protagonista della politica internazionale è un progetto piuttosto che una realtà. Avremmo voluto vedere a Mosca, portatrice di un’unitaria proposta europea, Federica Mogherini – e parliamo da europei, non da italiani.

La crisi europea innescata da Vladimir Putin ha anche questo effetto: quello di fare regredire le relazioni internazionali, rivelando tutta la fragilità degli scenari ottimistici sia della globalizzazione che dell’integrazione europea, al loro livello più basico e tradizionale (qualcuno dirà più autentico), della diplomazia dei singoli Stati, del territorio, dell’uso della forza, del nazionalismo.
Non sarà facile nello stesso tempo fermare Putin e contrastare questa regressione sistemica.

(da La Stampa - 7 febbraio 2015)

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